“Condannati” per responsabilità alla coalizione, Daniele Borioli

Daniele Borioli (*)
Avevo cominciato a mettere nero su bianco qualche riflessione sul prossimo destino del centrosinistra subito all’indomani della fiducia sulla legge elettorale. Ho fatto bene a fermarmi, perché il quadro rispetto a quel primo frangente è mutato e alcuni nodi sono venuti al pettine. L’approvazione della nuova legge elettorale ha segnato il massimo punto di tensione tra il Pd e le forze che stanno alla sua sinistra: per tradizione, come nel caso di Campo Progressista, di Sinistra Italiana e del Movimento di Montanari e Falcone; per scissioni successive, come nel caso di Possibile e di Mdp. Tensione sfociata nell’uscita ufficiale di quest’ultima dalla maggioranza di Governo.
A due settimane da quel momento, il clima dei rapporti tra il Pd e l’arcipelago delle formazioni potenzialmente riconducibili a un progetto politico in grado di sconfiggere le destre e il M5S rimane pessimo o molto problematico. È invece significativamente mutata la linea politica che i democratici hanno deciso di perseguire. Se qualcuno ha memoria delle reiterate affermazioni circa l’autosufficienza del Partito Democratico, che il segretario Matteo Renzi ha posto qualche mese fa ad asse portante della campagna che lo ha riportato, con larghissima legittimazione, alla leadership del Nazareno, non può essere negata la portata di una svolta radicale.

Sulla quale è legittimo nutrire perplessità e dubbi, da rimuovere con una coerente azione sul terreno programmatico e politico, ma che non può, sino a prova contraria, essere misconosciuta. L’ultima direzione nazionale ha fatto di più: ha vestito il cambio di linea con un incarico preciso, affidato a Piero Fassino, cui è stata data la consegna di essere ambasciatore e tessitore di una coalizione di nuovo conio, in grado di recuperare i rapporti interrotti a sinistra e di cucirne di nuovi, verso le forze e i luoghi di una cultura progressista liberale e di una cultura moderata democratica. Per chi come il sottoscritto, sostenitore al congresso delle posizioni di Andrea Orlando, sostiene ormai da diversi mesi l’esigenza di svoltare verso questo tipo di approdo, il nuovo corso varato da Renzi è un risultato importante. E intanto è lì.
Certo, le prime risposte, in particolare da parte degli ex di Articolo 1-Mdp, sono tutt’altro che positive. Ma il lavoro di Fassino è appena all’inizio e, soprattutto, non è più il lavorio faticoso di una minoranza interna, ma è la posizione ufficiale del Pd, e quindi ha la forza politica attrattiva che, alla fine, necessariamente avrà l’iniziativa del Partito che, pur tra le molte difficoltà, contende pur sempre al M5S il primato dei consensi popolari nel Paese. Confido molto sul buon senso di cui Bersani è capace, nonostante le sue dichiarazioni di questi giorni paiano andare in un’altra direzione. Mi rende fiducioso, non ottimista per non esagerare, anche il ritorno in campo della tenda di Prodi e l’esposizione positiva di Veltroni e dello stesso Letta, che per la prima volta da quasi quattro anni è tornato ad esprimere un giudizio politico positivo su una posizione politica del Partito Democratico.
E nel Pd, la prudenza esercitata in direzione dall’area di Orlando con l’astensione dal voto, derivata dai lunghi mesi nei quali le proprie proposte erano state snobbate, e dalla necessità di arricchire la svolta con alcune nette indicazioni di contenuto, soprattutto sui temi sociali, del lavoro, della scuola e dei nuovi diritti, certo non interverrà ad incrinare la compattezza interna sul nuovo corso. Veniamo ora ad alcuni degli enzimi indispensabili a fecondare l’opera. Lavoro, contrasto alla povertà, scuola. Temi sui quali occorre uscire dalla dialettica conflittuale per entrare in un concreto e ragionevole percorso di compromesso. Che è lo strumento principe del riformismo.
Partiamo dal lavoro. È inutile nascondersi dietro un “non possumus” sulla questione del Jobs Act: è uno dei nodi aperti, non solo per ricucire con la sinistra, ma anche con una parte del mondo del lavoro che lo ha solo subito, e per la quale esso ha nei fatti significato contrazione di diritti. Non si tratta di eliminarlo, ma di rivisitarlo in modo significativo, nelle sue parti non attuate, e in quelle invece la cui attuazione è servita più a retrocedere i lavoratori già inquadrati verso forme contrattuali meno tutelanti che non a dare tutele crescenti ai nuovi assunti.
Analogo discorso vale per la “buona scuola”, la cui introduzione convulsa, nonostante gli importanti correttivi della nuova Ministro Fedeli, ha nascosto agli occhi degli operatori quanto c’era di buono, come la stabilizzazione di decine di migliaia di lavoratori precari, e portato in evidenza i problemi cronici: il decadimento di status economico e sociale degli insegnanti, a fronte di un accresciuto potere dei dirigenti, molti dei quali sforniti di un profilo di competenze adeguato, per i quali non esiste in realtà un vero, trasparente, ed efficace, metodo di valutazione, che includa certezza di penalizzazioni e premi.
Sul contrasto alle povertà e sul rilancio del sistema dei diritti sociali, in primis quello alla salute, sono già state dette molte cose. È positivo che il Governo abbia introdotto il reddito di inclusione: è una prima feconda frattura in un lungo muro di silenzio che ha storicamente distinto in negativo il welfare italiano rispetto al modello più avanzato di altri sistemi europei. Le risorse sono ancora troppo poche e vanno aumentate. La salute deve tornare ad essere l’asse portante del sistema sociale italiano, a partire dal contenimento e dalla progressiva eliminazione del super ticket, di cui già si discute. Ed è ora di riprendere in mano la curva dell’età pensionistica: senza perdere di vista i conti dello Stato, ma anche le patologie che l’eccesso di permanenza sul posto di lavoro determina sul versante dell’occupazione giovanile e anche sul consolidamento endemico di vecchie e nuove tare nazionali: eccesso di familismo e decadenza demografica.
Infine, la frontiera dei nuovi diritti. I passi epocali compiuti con l’approvazione delle unioni civili e con la legge sul “dopo di noi” va completato con l’approvazione di una legge decente sul fine vita e di una disciplina giusta e ragionevole sulla cittadinanza dei figli degli stranieri che si formano in Italia. Sono tra coloro che sostengono la necessità di portare a compimento queste due leggi già nell’attuale legislatura, perché è un dovere di civiltà e perché anche attraverso questi passaggi si potrà provare a gettare fili di ricomposizione della maggioranza spezzata a sinistra.
Questo è il lavoro da fare. Ancora due parole sul perimetro della coalizione. Il mio cuore, anche per la mia storia politica personale, batte prevalentemente a sinistra. Ma non mi sfugge, come già non sfuggiva a Prodi, Fassino, Veltroni, Rutelli, D’Alema e Bersani, come in Italia la sinistra da sola non ha i margini di autosufficienza necessari a vincere la partita del consenso. Tramontata per ora e per chissà quanto, anche agli occhi di Renzi, l’illusione prodotta dalle europee del 2014, bisogna mettersi nell’ordine di idee di allargare il campo. Verso le forze del riformismo liberale, laico e radicale. E anche della moderazione democratica, che possono trovare luogo in un’alleanza che dia approdo alle loro proposte programmatiche, sulla famiglia, sull’esperienza economica e sociale della minore impresa, sottraendole all’attrazione fatale di una nuova destra nella quale la golden share di Salvini è prepotente e innegabile, nonostante gli sforzi di Berlusconi.
Se nello scampolo di vita che resta all’attuale legislatura dovessero arrivare in porto con i voti di quel fronte parlamentare lo ius soli e la legge sul fine vita, bisognerebbe spiegare le ragioni per fondare la sua esclusione pregiudiziale da una possibile futura alleanza programmatica in vista delle elezioni. Sempre che, prendendo a prestito la storia, neanche troppo lontana, non si riesca a spiegare quale fosse il profilo maggiormente riformista e di sinistra dell’Udeur di Mastella, alleato non solo con i Ds e la Margherita, ma con la stessa Rifondazione Comunista e con i Comunisti Italiani. Vale la pena per un grado di purezza in più, lasciare alle destre la guida del Paese?
Segnalo solo un piccolo ma denso elemento a sottolineare l’insidia sottesa a questo possibile errore. Lo faccio partendo da un precedente che ha segnato la storia di questi ventitre anni. Ne potrei citare altri più lontani nel tempo, ma mi limito a questo. Nel 1994 l’algida scelta di Martinazzoli e Occhetto di far marciare divisi il Partito Popolare e la “gioiosa macchina da guerra”, consegnò il Paese a Berlusconi e costrinse Nanni Moretti a farsi la prima canna in età già matura. E allora, la componente leghista della maggioranza, pochi giorni dopo quella vittoria mandò una delegazione robusta alla manifestazione del 25 aprile, per marcare la propria radice antifascista. Oggi il capo di quel movimento guarda come propri modelli Marine Lepen e le espressioni ultranazionaliste e xenofobe che agitano diverse realtà d’Europa. Non sottovaluterei la rilevanza di questo mutato scenario, che non ci permette di correre il rischio insito nelle divisioni.
Abbiamo una legge elettorale tutt’altro che perfetta, fatta con una procedura parlamentare certo non adamantina, per quanto necessitata dalle circostanze. Ma ora c’è, ed è comunque qualcosa di meglio del pasticcio che ci sarebbe stato se non l’avessimo fatta. Le destre hanno già deciso di usarla, facendo coalizione, nonostante le loro differenze intestine siano molto più marcate di quelle presenti nel campo del centrosinistra. Rinunciare al tentativo di ricomporre un quadro in grado di competere e vincere; lasciare il nostro popolo, che è molto più comunità di quanto lo siano le forze che vorrebbero rappresentarlo, sarebbe un errore imperdonabile.
(*) Senatore PD della provincia di Alessandria




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