Romanzi criminali, film, tv e il TTP Netflix del cinema

E’ in corso di svolgimento a Bergamo, da giovedì 22 a mercoledì 27, il festival cinematografico A Shot in the Dark, organizzato presso l’Auditorium di piazza della Libertà dalla Lab 80 Film e dalla Federazione Italiana Cineforum, nel quadro del suo 65° Consiglio Federale. E’ compreso in tale ambito il 28° convegno di studi “Vedere e studiare cinema”, dal tema Il giallo tra cinema, cultura e fumetto. Questa la sintesi di una delle nove relazioni presentate, col titolo: «Persona informata sui fatti»: da  De Cataldo alle mafie capitali (www.cineforum-fic.com, www.lab80.it).   
  1. Un best seller esploso quindici anni fa (Romanzo criminale) e il suo pluridecennale sviluppo in filiera: il film di Placido e le due serie gemmàtene; il nuovo libro Suburra con Carlo Bonini, il relativo film di Stefano Sollima, la serie Netflix imminente, e non è detto finisca così). Affascinante che un alto magistrato -rivelatosi signor scrittore, indipendentemente dal numero di copie, non solo in questa circostanza- sia stato a sua volta, dal mondo del crimine e dai suoi personaggi (poi, tra le molte altre uscite, nel 2012 ha anche messo fuori da Einaudi un prequel, Io sono il Libanese) così ipnotizzato. Lo sono stati dopo di lui, altrettanto vistosamente, registi e attori via via coinvolti, ma soprattutto i lettori-spettatori di tutte le fasi metamorfiche della provocazione narrativa. Come se una sorta di adrenalinica dipendenza da una qualche sostanza proibita fosse venuta via via assoggettando tutti (e di polvere bianca ne gira parecchia, tra pagina, schermo e teleschermo). De Cataldo fece parte del collegio giudicante nel processo alla banda della Magliana: e probabilmente anche in quelle lunghe sedute contrasse l’irreversibile contagio, divenendo persona… informatissima sui fatti. Al di là delle precauzioni legali di prammatica sulla pura casualità di persone e accadimenti, la dialettica di riconoscibilità dei personaggi “immaginari” pervade l’intero tracciato narrativo percorribile, dalle prime pagine del romanzo alle ultime battute della propaggine per ora estrema (ci sono anche, nel maxiprequel di Suburra la serie, un sindaco di Roma che si dimette, la speculazione edilizia sistematica in una Ostia totalmente mafiosizzata, l’immancabile apoplessia di un prelato causa orgia).
  2. Quattro i livelli: i due romanzi, Romanzo criminale e Suburra, usciti da Einaudi (oggi sarebbe più corretto dire da Berlusconi…) nel 2002 e nel 2013, entrambi a sua firma. Da solo il primo, a quattro mani con Carlo Bonini l’altro; 2. i due film per le sale che ne hanno tratti rispettivamente Placido nel 2005 e Sollima jr nel 2016; 3. la serie tv derivata da De Cataldo-Placido, ancora con la “complicità” dello stesso romanziere, nel 2008-09, dodici episodi già con Sollima regista unico, cui vanno aggiunti i dieci della seconda in onda dal novembre al dicembre del 2010. Ma c’è un quarto livello che in vero è il primo, la realtà effettuale quotidiana, della cronaca e della storia, che ha inizio col prendere piede della futura “banda della Magliana” oltre quarant’anni fa, e si considera momentaneamente approdata alla sentenza del 20 luglio scorso, con cui il tribunale di Roma ha condannato a pesanti pene detentive gli imputati della cosiddetta questione “mafia capitale”, senza però addebitare loro la richiesta aggravante dell’associazione di tipo mafioso.(Sarà estremamente interessante leggerne le ormai prossime motivazioni). E questo nonostante la campagna informativa incessante, condotta in particolare da “Repubblica” con Carlo Bonini, e dall’”Espresso” con Lirio Abbate, non a caso neppur oscuramente minacciati. D’altronde il primo campanello d’allarme era stato suonato da un articolo ormai storico dello stesso Abbate (I quattro re di Roma, “L’Espresso”, 12 dicembre 2012) in cui si descrivevano note figure e loro modi di operare, rilevando come già fino ad allora in nessuna sentenza romana fosse stata riconosciuta, in luogo di quella a delinquere, l’associazione mafiosa. Ma è proprio la figura letteraria e insieme quanto mai reale del “Nero” a congiungere realtà in corso, romanzo di De Cataldo, film di Placido ed episodi delle due serie in cui si affaccia, per assurgere poi a protagonista (il Samurai), dei tre Suburra: romanzo, film e telefilm.
  3. Il lavoro seriale è soprattutto di Per Romanzo criminale il copione, condiviso da De Cataldo e Placido, era dei collaudatissimi Rulli e Petraglia; passando alla tv, ancora il romanziere con Daniele Cesarano, Barbara Petronio e Leonardo Valenti, mantenendo altresì un editing conclusivo. Per Suburra, tornano nel film a sceneggiare Rulli e Petraglia con De Cataldo/ Bonini; nei dieci episodi della serie tv riservata agli abbonati Netflix dal prossimo 6 novembre, che è anche la prima produzione originale italiana del colosso mondiale streaming on demand, regie di Placido, Molaioli e Capotondi; a sceneggiare sono stati chiamati, con la Petronio e Cesarano, Ezio Abbate, Fabrizio Bettelli e Nicola Guaglianone. A proposito del suo film originario da De Cataldo-Bonini, Sollima aveva detto: “Trovo che sia attuale, anche rispetto ai tempi in cui stato girato, ma in virtù del genere, che lo rende meno realistico e più allegorico. Per questo, probabilmente, sarà attuale anche tra vent’anni. È un racconto su una città e sul potere. Può dare l’impressione di un western, per i campi di ripresa molto lunghi, in cui c’è un personaggio e, attorno, il mondo che rappresenta. Ma i punti di riferimento sono sempre il gangster movie e il noir. Si tratta di un noir metropolitano”.E i due sceneggiatori, dal canto loro, rilevando l’ambientazione nel fatidico novembre 2012 con la caduta di Berlusconi: “Scandire il racconto nell’arco di sette giorni e in un periodo ben preciso, ci serviva per dare una cornice concreta, realistica alla struttura, a partire dalla quale poter poi esplorare le dinamiche del genere. Ed è un po’ lo stesso motivo per cui abbiamo aggiunto la figura del papa dimissionario. Certo, se nei film che abbiamo scritto c’è sempre una figura positiva, qui no. Nessuno salva questo paese. E perciò si è trattato di esplorare il male dall’interno. Ma c’è stata un’altra domanda che ci ha accompagnato in fase di scrittura. Cioè in che modo il cinema può raccontare questi mondi cupi rispetto alla serialità televisiva, che si è dotata negli ultimi anni di tecniche narrative ben precise”. Va notato come, dal punto di vista cronologico, i fatti dei due romanzi si congiungano: Romanzo criminale, pur aperto da un fulmineo prologo Roma, oggi (sostanzialmente senza tempo: si chiude con il grido nostalgico-disperato «Io stavo col Libanese!» è caratterizzato da una Genesi 1977-78 e si conclude con un Epilogo, Roma 1992. Suburra ha inizio sempre a Roma, luglio 1993 e si conclude con Un epilogo. Domani è un altro giorno, dove si cita un imprecisato 20 dicembre. Ancora Sollima: “La versione televisiva mi sembra la più appropriata, perché la lunghezza stessa e l’ampiezza del romanzo, lo sviluppo dei personaggi all’interno del racconto non poteva che essere raccontata come da noi, con 600 minuti abbondanti di racconto. Tutti quanti i colleghi [del commissario Scialoja, n.d.r.] come fu poi nella realtà, sostenevano che a Roma non fosse possibile un’organizzazione criminale di quel tipo. Sono unici e irripetibili: tant’è vero che da allora non è mai più successo che un gruppo criminale riuscisse a prendere il potere in una città dove già esiste un potere che è quello costituito, quello dello Stato».
  4. Accenniamo almeno a un possibile momento analitico-comparativo. quello iniziale dei tre Romanzo criminale: il sequestro del barone Rosellini. De Cataldo lo sbriga in un sei pagine: non si sofferma un attimo più dell’indispensabile sul fatto (“Prendere il barone era stato un gioco da ragazzi”: la prima mezza riga del terzo capitolo!), lo ricostruisce in sintesi con l’espediente brillante del Rapporto giudiziario  del commissario Nicola Scialoja (il quarto). Alla prima riga del quinto il povero barone (nella realtà si trattò del duca Massimiliano Grazioli Lante della Rovere) è già morto. Placido vi dedica, quasi in corrispondenza, altrettanti sei minuti sei del Nel primo episodio della serie posta in essere da Sollima. l’episodio, che è la chiave di volta dell’intera costruzione, viene sapientemente rallentato e fatto attendere, dilatandone i tempi di preparazione e i risvolti collaterali, risolvendo poi però con felicissima intuizione il rapimento in sé, col montaggio parallelo alternato rapidissimo di progettazione/esecuzione, e togliendosi il lusso finale di… ristabilire la “verità” di De Cataldo: assassini dell’ostaggio tornano ad essere i suoi custodi  -”i catanesi di Casal del Marmo” (p. 25)- anzi che inconsultamente il Libanese, come invece Rulli e Petraglia con Placido avevano variato. Un primo esempio della totalizzante operazione di pantografo che informerà, com’è evidente e inevitabile, di sé l’intero tragitto, episodio per episodio, aggiungendo per forza di cose carne al fuoco del già debordante se pur controllatissimo romanzo, che il film per forza di cose era invece costretto a sintetizzare.  Risulta fin dapprincipio impressionante la felicità del nuovo casting per i quattro giovani attori incarnanti i protagonisti (Montanari, Marchioni, Roja e Marco Bocci, in luogo dei più celebrati e “sicuri” Favino, Rossi Stuart, Santamaria e Accorsi del film; altrettanto valida la sostituzione della Mouglalis con la Virgilio nel ruolo di Patrizia, così come pure la Mastronardi rileva senza troppi danni la Trinca quale Roberta).
  5. Ma la genesi di Suburra la serie, col suo titolo impressionante, composto com’è da durissimi sampietrini accatastati, è più complessa: il progetto è stato pensato da subito come serie, passando dapprima al libro, poi al film e infine alle dieci puntate nelle quali, chiudendo il cerchio, viene data vita a vicende anteriori a quelle del romanzo/film (un po’ come hanno fatto Camilleri e Sironi con l’invenzione del Giovane Montalbano, però a posteriori…). Lo ha spiegato in conferenza stampa a Venezia la Petronio: «Volevamo la massima libertà di racconto, descrivendo personaggi allo stato nascente, molto più giovani rispetto al film, quindi con più energia e Ci interessava descrivere il modo in cui diventano adulti e con cui imparano a sopravvivere in una città difficile e particolare come Roma». Nell’imminenza del disvelamento integrale per il quale siamo ormai entrati nel conto alla rovescia, contentiamoci della descrizione veneziana di Morreale per “Repubblica”: «Piglio energico e veloce come richiede il format, con tante storie che si incrociano e che troveranno sviluppo nelle puntate successive . Nelle prime puntate non mancano gli “spiegoni”, non più fastidiosi però che in molti film nostrani. Il racconto è complesso, con le storie che si intrecciano in maniera che potrebbe sembrare artificiosa, ma che in realtà è più che giustificata dal sistema vertiginoso di Mafia Capitale. Famiglie criminali di rom in stile Casamonica, figli di poliziotti che fanno gli spacciatori e si mettono nei guai, politici integerrimi che, sfiduciati, accettano il compromesso con il crimine, preti ricattabili e ciniche donne manager legate al Vaticano: insomma la fauna del film e del romanzo, con tutte le premesse per lunghissimi sviluppi e qualche novità. Proiettato sul grande schermo risaltano di più i difetti (certe recitazioni sovraccariche, la musica onnipresente) che probabilmente appariranno attenuati nella visione domestica». Veniamo a trovarci sotto l’effetto dell’imminenza Netflix di Suburra: ormai le serie tv riescono a suscitare effetti mediatici di attesa che il cinema in sala neppure coi maggiori blockbusters annunciati si sogna: il giusto titolo di questo contributo sarebbe stato “Netflix sì Netflix no”…
  6. Venti giorni fa, sempre da Venezia, riferendosi ai due stessi episodi mostrativi promozionalmente (quelli di Placido: i successivi sarebbero stati, come detto, a firma Molaioli e Capotondi), Sergio Rubini («La Stampa», 4 settembre) notava: «Possono cambiare i mezzi con cui si fa il cinema, possono cambiare le modalità con cui si vedono i film, ma è importante mantenere l’unicità dell’opera, espressione di uno sguardo Le serie tv non hanno questo sguardo unico, sono realizzate da diversi registi e perdono completamente il senso profondo che possiede un film d’autore. Non sono cinema come oggi vogliono farci credere». Bel problema anche questo: ma anche se ne sarei molto tentato, non mi lascerò fuorviare da una simile querelle, oltretutto sottesa a quella maggiore: la disputa interfestivaliera tra Cannes e Venezia e i due direttori -pur amici per la pelle- Frémaux e Barbera. Ammettere o no nelle rispettive rassegne i film prodotti dai networks tv, per i quali non è prevista l’uscita in sala? Frémaux ha risposto negativamente, noncurante del fatto che la legislazione francese imponga tre anni di moratoria per il passaggio tv dall’uscita in sala, pur derogando per l’edizione scorsa, e si è preso del passatista dall’autorevolezza dello stesso Morreale e di altri. Barbera è invece incondizionatamente favorevole, adducendo tra le altre motivazioni anche il carico da novanta che per il prossimo Scorsese non sia prevista la sala. (Alla reinagurazione romana del cinema/arena America l’ospite di riguardo che la solennizzava, niente meno che Ashgar Fahradi in persona, ha sostenuto a sua volta che i film vanno visti nelle sale, e l’ha riecheggiato nell’estate, tra gli altri, Sofia Coppola). Invece questa diversa operazione, data la differente soluzione produttiva (non più Rai o tutt’al più Sky, ma Netflix) è stata efficacemente descritta, sempre a Venezia, dal coproduttore Tozzi di Cattleya: «Lo specifico di Netflix è nel suo carattere globale, le categorie dell’aggancio nazionale non contano più. Bisogna parlare al mondo, proponendo qualcosa di forte e di autentico, che vada bene per i pubblici più differenti». Come si possa concepire qualcosa di “autentico” adatto “ai pubblici più differenti”, è un mistero che solo Tozzi potrà risolverci (almeno pari a quello per cui RaI Fiction ha avvertito la necessità di impegnarsi in questa prima serie italiana di Netflix: che raggiunge, ci viene sempre ricordato, oltre 100 milioni di abbonati in 190 paesi!). Allora però non più solo questione di autorialità singola, come lamentato dal “conservatore” Rubini, o di ammissibilità o meno ai festival di film non predisposti per il circuito tradizionale (perché ormai persino multisale e cineplex possono essere annoverate in questo ambito…) secondo quanto disputano Frémaux e Barbera. Qui siamo davanti a una sorta di neo-TTP dello spettacolo riprodotto, dove la globalizzazione contempla produzioni, se non geneticamente modificate, certo almeno… neutralizzate. Magari lavorando per eccesso, perché no? Una sorta di piccantissima cucina internazionale, sostitutiva di quello che fu il cinema, dove ogni peculiarità culturale specifica -proprio in questo folle tempo di nazionalismi risorgenti- sia calcolatamente azzerata, o resa convenzionalità tipo esportazione. Sono per caso due facce della stessa medaglia?




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