Profeti del ‘900 .. e coerenti conseguenze,

Carlo Baviera
Il 20 giugno Papa Francesco ha reso omaggio, con visita privata, a due profeti del ‘900, a due sacerdoti coraggiosi e incompresi: don Primo e don Lorenzo.
Su di loro abbiamo letto di tutto. Si è scritto molto, si sono fatti filmati televisivi; si sono realizzate negli anni riabilitazioni tardive.
Le loro intuizioni, le loro posizioni, le loro “critiche” sono state più volte affrontate, sviscerate, giudicate, giustificate, riproposte; si sono attribuiti loro riconoscimenti postumi quali riferimenti per la fede e di civismo.
Il Papa ha aggiunto le proprie considerazioni; ad esempio, per quanto riguarda don Primo, sottolineando l’attualità del suo messaggio e richiamando alcuni scenari che lo hanno visto all’opera ha voluto ricordare che “se per le sue aperture (bisogna uscire dalla Chiesa, se il popolo non ci viene più; occuparsi e preoccuparsi anche di quei bisogni, che pur non essendo spirituali, sono bisogni umani; non dobbiamo massacrare le spalle della povera gente; parroco dei lontani perché li ha sempre cercati)  veniva richiamato all’obbedienza, la viveva in piedi, da adulto, da uomo, e contemporaneamente in ginocchio, baciando la mano del suo Vescovo, che non smetteva di amare” concludendo che “Nel suo scritto La via crucis del povero, don Primo ricorda che la carità è questione di spiritualità e di sguardo. «Chi ha poca carità vede pochi poveri; chi ha molta carità vede molti poveri; chi non ha nessuna carità non vede nessuno». E aggiunge: «Chi conosce il povero, conosce il fratello: chi vede il fratello vede Cristo, chi vede Cristo vede la vita e la sua vera poesia, perché la carità è la poesia del cielo portata sulla terra»”.

Mentre a proposito di don Lorenzo nel suo discorso di Barbiana, il Papa dice “il gesto che ho oggi compiuto vuole essere una risposta a quella richiesta più volte fatta da don Lorenzo al suo Vescovo, e cioè che fosse riconosciuto e compreso nella sua fedeltà al Vangelo e nella rettitudine della sua azione pastorale. [..] Ciò non cancella le amarezze che hanno accompagnato la vita di don Milani – non si tratta di cancellare la storia o di negarla, bensì di comprenderne circostanze e umanità in gioco –, ma dice che la Chiesa riconosce in quella vita un modo esemplare di servire il Vangelo, i poveri e la Chiesa stessa”.  Si riconosce quindi il significato di evangelizzazione che assumono la passione educativa di don Milani, attraverso l’attività della sua scuola (“La scuola, per don Lorenzo, non era una cosa diversa rispetto alla sua missione di prete, ma il modo concreto con cui svolgere quella missione, dandole un fondamento solido e capace di innalzare fino al cielo”); il dare la parola ai poveri (“Ridare ai poveri la parola, perché senza la parola non c’è dignità e quindi neanche libertà e giustizia”); l’impegno per la partecipazione responsabile (“Troviamo scritto in Lettera a una professoressa: «Ho imparato che il problema degli altri è eguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia». Questo è un appello alla responsabilità”).
Io mi permetto soltanto di riprendere un commento di don Tonio dell’Olio a TV2000 a seguito della visita del Papa. Dice don Tonio che non solo non si deve fare un santino di questi due preti; ma che bisogna anche dire della ruvidità di alcuni contrasti.
Don Lorenzo, ad esempio, “è stato mandato in punizione in una Parrocchia che doveva scomparire …. Oggi il Papa lo indica come modello. E’ proprio considerato, a livello generale, un modello di sacerdote? E’ stato accusato da sacerdoti, cappellani militari, per dei reati che oggi non sarebbero più reati, e dopo la prima assoluzione morì prima della sentenza di appello che dichiarò estinto il reato solo per la morte del “reo”: per apologia di reato perché sosteneva  l’obiezione di coscienza, oggi riconosciuta dalla legge”.
Don Tonio chiede perciò (e lodevolmente) una riabilitazione e assoluzione piena, che abbia anche conseguenze concrete: “C’è da chiedersi se non è da rivedere la figura e la funzione dei cappellani militari, oggi. Si deve esercitare il servizio pastorale per chi fa parte dell’esercito, solo all’interno della struttura, con gradi militari e seguendo le regole di una comunità non strettamente ed esclusivamente pastorale?”
Anche per Mazzolari, aggiungo io, vale il discorso che il suo appello contro la guerra deve diventare una costante convinta, sincera, e praticata da tutti (Vescovi, sacerdoti, consacrati, laici). Perché è troppo facile, soprattutto a distanza di anni, dirsi favorevoli al pensiero dei profeti del nostro tempo, commuoversi per le riabilitazioni, riprendere questa o quella frase su Facebook, o arricchire la propria biblioteca di qualche loro libro.
Ciò che è veramente utile, necessario, da non trascurare è riprendere le loro “provocazioni” e metterle in pratica. Pur senza forzature o radicalismi, ma metterle in pratica e farle diventare un patrimonio generale. Soprattutto perché questo patrimonio, se leggiamo e comprendiamo la Dottrina Sociale (e da buoni cittadini, se comprendiamo l’art. 11 della Costituzione) è già patrimonio e insegnamento non annacquabile; e non esistono scappatoie. Almeno concediamoci qualche esame di coscienza.
Anche il Papa, nel suo messaggio per la Giornata Mondiale per la Pace del 2017 ci indica “La nonviolenza: stile di una politica per la pace”. In quel Messaggio, dopo aver ricordato le parole di Paolo VI per la prima Giornata per la Pace del 1968 (in cui metteva in guardia dal «pericolo di credere che le controversie internazionali non siano risolvibili per le vie della ragione, cioè delle trattative fondate sul diritto, la giustizia, l’equità, ma solo per quelle delle forze deterrenti e micidiali». Al contrario, citando la Pacem in terris del suo predecessore san Giovanni XXIII, esaltava «il senso e l’amore della pace fondata sulla verità, sulla giustizia, sulla libertà, sull’amore») aggiunge “chiedo a Dio di aiutare tutti noi ad attingere alla nonviolenza nelle profondità dei nostri sentimenti e valori personali. Che siano la carità e la nonviolenza a guidare il modo in cui ci trattiamo gli uni gli altri nei rapporti interpersonali, in quelli sociali e in quelli internazionali. Quando sanno resistere alla tentazione della vendetta, le vittime della violenza possono essere i protagonisti più credibili di processi nonviolenti di costruzione della pace. Dal livello locale e quotidiano fino a quello dell’ordine mondiale, possa la nonviolenza diventare lo stile caratteristico delle nostre decisioni, delle nostre relazioni, delle nostre azioni, della politica in tutte le sue forme”.
Da questo punto di vista non sembra coerente la decisione di riconoscere S. Giovanni XXIII quale patrono dell’Esercito Italiano (seppur di un Esercito che svolge azioni di servizio dopo i terremoti o le alluvioni, di interposizione in azioni di pace, o di disinnesco mine). Solo facendo crescere atteggiamenti e cultura nonviolenti, abbandonando mentalità e comportamenti che affidano alle armi tranquillità e futuro, potremo sconfiggere la violenza. La nonviolenza come stile politico; ma anche privato e di gruppo.




Commenti

Post più popolari