Il posto caldo, Marco Ciani

Marco Ciani
Il fisico danese e premio Nobel Niels Bohr sosteneva che fosse molto difficile fare previsioni, specialmente riguardo al futuro. E aveva ragione. Pur tuttavia, può valere la pena provare a immaginare che sarà nei prossimi anni di questa sfera azzurra vagante nello spazio che chiamiamo terra. Pronti ad essere smentiti in ogni momento perché la storia è quasi sempre impredicibile.
All’osservatore attento non dovrebbe sfuggire come 4 fenomeni appaiano contraddistinguere, a livello generale, le trasformazioni in atto:
― l’accelerazione di scienza e tecnologia
― il riscaldamento planetario
― la crescente ondata migratoria
― la diffusione delle armi di distruzione di massa.

A pensarci bene, si tratta in buona parte di avvenimenti legati in qualche modo a quel complesso processo noto come globalizzazione che, nella sua versione ultima, si è affermato in modo tumultuoso ed esponenziale a partire dalla fine degli anni ’80.
La sensazione prevalente è che le caratteristiche delle 4 trasformazioni che abbiamo descritto introducano già allo stato attuale, e con ritmi più sostenuti in futuro, tensioni destinate a dilatarsi. (Se ne potrebbero aggiungere altre, ma il discorso si farebbe troppo complesso. Comunque, solo per un accenno, gli studiosi americani David Croteau e William Hoynes individuano 8 tendenze della società postmoderna: espansione dei media e della cultura del consumo, globalizzazione dell’economia, invecchiamento della popolazione, cambiamento della famiglia, difficoltà delle istituzioni sociali, crescente diversità e multiculturalismo, cambiamento nella natura di violenza e guerra, mutevole ruolo della religione).

In sintesi.
La tecnologia distrugge posti di lavoro, soprattutto tra le professioni mediamente qualificate, con una velocità assai maggiore di quella con la quale se ne creano di nuovi sia nei settori tradizionali che avanzati. Essa avrà inoltre un impatto sempre più pervasivo anche nel modo di ragionare delle persone. L’influenza che esercitano i social network sulle scelte individuali, per fare un caso noto, è evidente. Ma si possono citare molti altri esempi.
Resta il fatto che le innovazioni nel modo di produrre pongono almeno due problemi. Il primo è costituito dalla potenziale obsolescenza di milioni di professioni che rischiano di essere spazzate via. Il secondo riguarda invece il cosiddetto digital divide, ovvero la possibilità sia materiale che culturale di accesso alle nuove tecnologie. Tradotto in parole povere: non tutti hanno la possibilità di fare il webmaster o l’esperto di robotica. Ciò premesso, la politica si muove su questi temi che richiedono una competenza specifica in modo molto lento. Ovvero sconta un ritardo cognitivo evidente. Al contrario delle aziende.
Il sindacato, se mi si consente una battuta da insider, è fermo. Salvo eccezioni rare. E dovrà darsi presto una mossa mettendo da parte ogni residua tecnofobia. Diversamente, chi rappresenta gli attivi incorrerà fatalmente in risvegli piuttosto bruschi e sgradevoli. Forse le maggiori centrali dovrebbero mettere in piedi delle strutture ad hoc, tipo gli Innovation Center delle aziende evolute, ovvero uffici dedicati composti da esperti qualificati, dotati di conoscenze specialistiche e titoli adeguati. Perché in questo campo belle idee, buona volontà e improvvisazione non sono sufficienti. Serve anche la professionalità. E il mondo non aspetta.
Un livello ordinario di acume risulta più che sufficiente per comprendere che le trasformazioni in atto nelle conoscenze scientifiche influenzeranno sempre di più il lavoro, l’economia e la finanza. Basti pensare che tra le prime 6 aziende mondiali per capitalizzazione, ci sono ben 5 società legate all’informatica e ad internet (Apple, Alphabet che significa Google, Microsoft e Amazon sono le prime 4, Facebook la numero 6).
Venendo al secondo fenomeno, il riscaldamento, oggi sappiamo che oltre a creare conseguenze ambientali ed umane devastanti come la siccità o gli uragani, rischia di mutare in profondità la geografia agricola del pianeta. La Russia, ad esempio, sta aumentando in modo impressionante la produzione di cereali, grazie all’impennata delle temperature al nord. Al contrario, la rarefazione delle piogge in altre regioni rende sempre più problematiche le coltivazioni in zone prima prosperose, come sanno bene gli Usa dove l’estensione dei terreni a grano è scesa proprio quest’anno ai minimi storici.
Ma agricoltura significa risorse alimentari. Che assieme alle altre fonti naturali, idriche ed energetiche in primis, sono alla base della vita stessa. E’ questo il motivo principale per il quale l’aumento delle temperature è particolarmente importante. Perché incide in profondità sugli equilibri a livello planetario. E sui rapporti di potere tra nazioni.
Le migrazioni. Nel 2015 nel mondo ci sono stati 244 milioni di migranti, 41% in più dal 2000. Tutte le stime accreditate immaginano che in futuro il flusso sia destinato ad aumentare spinto dalla desertificazione di terreni contigui alle zone aride e dalla ricerca di maggiore sicurezza e migliori prospettive di vita. Difficile immaginare che tali tendenze possano essere sterilizzate in modo definitivo dalla costruzione di muri o dall’inasprimento delle leggi anti/immigrazione.
Ne consegue che i problemi di coesistenza, integrazione e sicurezza saranno sempre più all’ordine del giorno in comunità destinate, volenti o nolenti, a introiettare il multiculturalismo nel loro tessuto sociale. Con le prevedibili reazioni consequenziali. L’immigrazione è destinata a tenere sempre più banco nell’agenda politica dei governanti. Ed a orientare le scelte degli elettori.
Ultimo, ma non meno importante, la proliferazione delle armi di distruzione di massa e dei relativi vettori, argomento che tiene banco in questi giorni per effetto dei lanci provenienti oggi dalla Nord Corea di Kim Jong-un e domani, con ogni probabilità, da decine di altre autocrazie di mezzo mondo.
La produzione e il possesso di armi atomiche costituisce una notevole scorciatoia per uno stato, anche tra i più arretrati, che ambisca a diventare di colpo un protagonista della scena mondiale, addirittura al punto di poter impensierire la nazione più potente del pianeta. E per un dittatore rappresenta una sorta di polizza sulla vita. E’ infatti assai probabile che se Saddam Hussein o Mu’ammar Gheddafi avessero realmente avuto a disposizione un arsenale nucleare, anche minimo, non sarebbero stati eliminati come è accaduto. Lo sa bene anche Kim.
Ogni tanto mi chiedo quando e dove scoppierà il primo ordigno non-sperimentale dopo quelli di Hiroshima e Nagasaki. Magari anche ad opera di terroristi e non necessariamente di stati-canaglia. Penso che in un tempo non lontano accadrà. E cambierà in pochi istanti la nostra prospettiva.
Dunque ci troviamo di fronte a uno scenario che, con il dovuto rispetto per l’alea che permea ogni vicenda naturale ed umana, pare condurci in modo più o meno rettilineo verso un aumento della temperatura globale. E in questo caso non ci riferiamo solamente a quella atmosferica.
Potremmo aggiungere, ad abundantiam, che il grande rimescolamento in atto richiede una capacità politica di gestione molto forte e leader più equilibrati degli attuali. Se non fosse che la storia sembra andare esattamente in direzione ostinata e contraria. Si tratta comunque di un problema complicato da risolvere, come ci ricorda il sociologo Mauro Magatti nel suo recente saggio per Feltrinelli Cambio di paradigma: «difficilissimo creare nuove alleanze sociali; difficilissimo prendere decisioni tempestive; difficilissimo disporre di personale preparato; difficilissimo stabilizzare il consenso elettorale».
Anche perché, in premessa, servirebbe una visione chiara di come imbrigliare i predetti fenomeni in una concezione valoriale saldamente fondata che oggi, entrate in crisi le grandi rappresentazioni ideologiche, semplicemente manca.
Lo stress sociale ed il disordine globale derivanti sono compatibili con la democrazia e la pace? E’ improbabile. Sempre l’ottimo Magatti ci ricorda, citando lo storico del nazismo Franz Neumann, che nelle moderne società di massa l’angoscia è il movente principale per la formazione di regimi autoritari. Per questo urge ripensare in modo serio a come si sta insieme, cioè al nostro contratto sociale. E su quali principi questo si possa sostenere. Dalle unità sociali più semplici, come la famiglia, a quelle a medio raggio come i luoghi di lavoro. Fino ad arrivare alla governance del pianeta.
Pensiamoci. In un mondo piccolo e arroventato non possiamo più dare per scontata la graduale trasformazione del contesto globale e delle sue singole componenti all’insegna di un progresso regolato, dove i diritti umani si ampliano anziché ridursi, come si immaginava dopo il 1989. Al contrario, potremmo assistere presto a eventi traumatici sia locali che generali prodotti dallo scenario descritto,.
A meno che Usa, Cina e Russia non decidano di sedersi a un tavolo, in una specie di riedizione degli accordi di Jalta, per negoziare il modo di gestire la fase attuale e quella a venire in un’ottica, se non multipolare come sarebbe auspicabile, almeno tripolare (l’Europa, per ora e per chissà quanto ancora, è destinata probabilmente a rimanere una mera espressione geografica). Il modo in cui sono state affrontate recentemente le crisi del Donbass in Ucraina, della Siria e della Nord Corea appaiono affatto incoraggianti.
Un accordo tra i tre soggetti più influenti sullo scacchiere globale sarebbe auspicabile nel breve periodo. Ma non risulterebbe comunque sufficiente sul lungo termine. Perché le dottrine che hanno caratterizzato il ‘900 si sono frantumate, e non possono più rendersi attuali. Vanno rimpiazzate.
Dunque per il futuro serve altro. Senza una visione evolutiva diversa fondata sulla ritrovata centralità della persona e sul recupero di valori comunitari, a bilanciamento di quelli individuali, non c’è accordo che tenga. Una proiezione originale da calare nel mondo odierno con le sue dinamiche che, a mio sommesso parere, sono dipendenti dai 4 fenomeni descritti in premessa.
In sostanza bisognerà inventare un modello alternativo di coesistenza improntato alla solidarietà globale e all’integrazione politica, economica e sociale secondo una prospettiva umanistica universale. Se non vogliamo che gli interessi egoistici delle singole parti in causa siano destinati a riemergere pericolosamente con conseguenze imprevedibili, ma potenzialmente nefaste.
Chi sarà in grado di fornire questa novella narrazione visto che come sosteneva Eugène Ionesco «Dio è morto, Marx pure, e anche io non mi sento molto bene»? Non lo sappiamo ancora. Ma al mondo serve disperatamente una boccata d’aria fresca. O, per tornare a Magatti, un cambio di paradigma che ci consenta di adeguare lo sguardo a un nuovo modo di interpretare la realtà.




Commenti

Post più popolari