Lacrime tra Gaudì e Messi, la Catalogna riparte dai miti

Prima la messa alla Sagrada Familia con i leader, poi il rito del calcio
In mattinata la messa solenne alla Sagrada Familia (foto), con le istituzioni
FRANCESCO OLIVO INVIATO A BARCELLONA
Il sangue di Barcellona si lava anche così: Gaudí e Messi, modernismo e tiqui taca, il dio della cattedrale e quello del pallone. Sacro e profano mischiati senza nessuna remora. Il simbolo, la Rambla, è stato colpito e proprio dai suoi simboli che Barcellona cerca di tornare normale nella prima domenica dopo il terrore: Sagrada Familia e Camp Nou.   
Il tempio della cristianità, quello che, secondo il piano dei terroristi, doveva essere lo scenario dell’attacco dinamitardo più clamoroso dopo l’11 settembre, un po’ per caso (l’esplosione della villetta), un po’ per orgoglio è diventato il cuore della rinascita. Se sulla Rambla gli altari improvvisati diventano sempre più grandi e affollati, qui il ricordo è più sobrio, non un funerale (mancano i corpi delle vittime), ma una messa che si vuole il più solenne possibile. Alle 10 del mattino, tra le eterne gru della Sagrada Familia spuntano il re Filippo e la regina Letizia, da tre giorni fissi a Barcellona. Gli altri banchi sono occupati dalle massime autorità dello Stato, c’è Mariano Rajoy, c’è la presidente del Congresso Ana Pastor, le sindache di Madrid e Barcellona, Carmena e Colau, il presidente catalano Puigdemont e il suo vice Junqueras. A vederli tutti insieme dopo anni di durissime battaglie, il cardinale Omella fa un appello: «La divisione ci distrugge». Il sovrano annuisce. Arriva anche un messaggio di Papa Francesco: «Prego per voi», il premier portoghese Costa stringe mani. 


Interessante lo spettacolo fuori dai portoni della basilica (minore) di Gaudí. Sin dal mattino presto si accalca un’umanità varia: qualche sparuto monarchico «Viva España», grida un anziano a Filippo VI che ricambia con un saluto, gli immancabili curiosi, passanti con il cane (siamo in una zona residenziale, Airbnb a parte) e soprattutto i turisti. Qui, ogni anno ne arrivano a milioni, «è l’instagram point» dice un impiegato del punto informazioni. Oggi, però, non possono entrare: una decisione che lascia tutti sconcertati: «Ma come?» protesta un gruppo di americani, «c’è la messa per i morti del terrorismo, sir», ma la risposta non soddisfa la comitiva.  

Finita la messa, la religione di Barcellona prevede un’altra cerimonia, sempre meno laica: scende in campo il Barca. La prima di campionato contro il Betis va al di là: «Questa partita è il nostro ritorno alla normalità, quella che i terroristi volevano scalfire», dice il presidente Puigdemont e non esagera. Dopo quello che è successo, il Camp Nou va difeso. La strada che porta allo stadio è bloccata due ore prima del fischio d’inizio, la polizia catalana esibisce un dispositivo di sicurezza potente: blindati, posti di blocco continui, agenti con mitra in mano. Nonostante le trombette dei bambini l’ambiente non è spensierato, come potrebbe? Nei bar che si susseguono nella travessera del Las Corts le televisioni mandano le immagini delle ricerche del terrorista fuggitivo, al bancone in pochi parlano della crisi del Barça: «Giovedì stavamo parlando con un amico - racconta il tifoso Joan Maria Molas - eravamo preoccupati perché la squadra aveva giocato malissimo la sera prima a Madrid. Durante la conversazione è arrivata la notizia: la preoccupazione ha fatto un salto di qualità». La voglia di normalità non nasconde tanta tristezza. In tribuna, forse per rassicurare, c’è anche il comandante dei Mossos Trapero, ormai una celebrità. Si entra in campo: Messi guida i suoi per la foto davanti al cartello con hashtag #totsombarcelona (siamo tutti Barcellona).  

Il minuto di silenzio è un colpo al cuore e fa scattare le lacrime anche ai più cinici dei titolari di tessera vitalizia. Poi si alza il grido «No tinc por», non ho paura, lo slogan del riscatto di Barcellona. Qualcuno, un po’ di timore deve averlo avuto: gli spalti non si riempiono. I paganti sono 56.480, lo scorso anno per la prima di campionato, sempre contro il Betis, furono 64.000, «8.000 in meno si spiegano con il panico», ammette il radiocronista di Catalunya Radio all’intervallo. Al minuto 17.14 parte il rituale: si inneggia all’indipendenza della Catalogna. Il gol arriva solo dopo 40 minuti, ma con il Betis la differenza è troppa per distrarre Barcellona. Dopo tre minuti il raddoppio, e sguardo ai cellulari: «L’hanno preso il terrorista?». Més que un club, recita il motto, ma oggi è stata dura. 


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