“Devi parlare con noi”. “Allora lascio”. E Gentiloni chiede aiuto a Mattarella

Lo sfogo di Delrio a Palazzo Chigi: Marco ha sbagliato metodo. Imbarazzo del premier. L’intervento risolutore del Quirinale
ANSA
Il presidente Sergio Mattarella con Marco Minniti, ministro dell’ Interno, in occasione del giuramento del governo Gentiloni del 12 dicembre 2016
Pubblicato il 08/08/2017
FRANCESCA SCHIANCHI
ROMA
Quando ormai è sera, conclusa la giornata più burrascosa di questi otto mesi alla guida del Viminale, il ministro Marco Minniti si sente finalmente rassicurato. Palazzo Chigi ha diffuso un comunicato per ricordare che l’unica linea del governo su Libia, contrasto ai trafficanti e immigrazione è la sua. Ma, soprattutto, il Quirinale ha redatto una nota informale per garantirgli tutto il suo appoggio e apprezzamento per il lavoro che sta facendo, tentativo estremo e riuscito di scongiurare le sue dimissioni e sedare la rivolta che si stava sviluppando tra i ministri contro di lui. Mettendo fine a un pomeriggio ad altissima tensione, che lascia per qualche ora seriamente in difficoltà il governo: «O mi tutelate o lascio. Se la linea politica non è più condivisa, il mio compito è finito», minaccia Minniti a un certo punto. 



Alle quattro e mezza del pomeriggio, al termine della riunione del governo, è chiacchierando con i colleghi che il responsabile delle Infrastrutture, Graziano Delrio, sfoga tutta l’irritazione covata in questi giorni sulla vicenda del trattamento delle Ong: «Le scelte strategiche non si fanno fuori dal Consiglio dei ministri, è un problema di metodo, mi sarei aspettato di discutere oggi della questione del codice di condotta». Nel corso della riunione dell’esecutivo si parla di scuola, di stato d’emergenza per la crisi idrica in Lazio e Umbria, di equo compenso nelle prestazioni legali: non una parola invece sul protocollo destinato alle associazioni non governative fonte di tensioni tra lui e Minniti. Anzi, il titolare dell’Interno a Palazzo Chigi non si presenta proprio e avverte il premier Paolo Gentiloni, pare addirittura con una lettera: tutti lo aspettano per avere finalmente chiarimenti sulle sue parole dure dei giorni scorsi (le associazioni che non firmano si mettono «fuori dal sistema di soccorso»), ma dopo la lettura dei giornali che danno conto delle critiche contro la sua linea, decide di disertare.  


Una scelta che non piace ai colleghi, a partire da Delrio ma non solo. Nei capannelli a margine della riunione, sono in tanti a mostrarsi scocciati dall’atteggiamento del ministro e delusi dalla mancata discussione sull’argomento, infastiditi non solo dal merito della questione, ma anche dall’atteggiamento “solitario” dal collega: da Andrea Orlando a Maurizio Martina, da Angelino Alfano a Valeria Fedeli e Marianna Madia. Una fronda trasversale che va dalla maggioranza alla minoranza del Pd, passando per Ap, e che decide di rivolgersi al premier.  

Così, al capo del governo impegnato in una perenne mediazione tra le diverse sensibilità dell’esecutivo, si presenta un problema cresciuto in pochi giorni a dismisura. Domenica aveva dovuto richiamare all’ordine il viceministro Mario Giro, per un’intervista critica sulla missione in Libia e, in particolare, sul trattamento dei migranti riportati sulle coste di Tripoli («non possiamo condannarli all’inferno»), incassando frasi di sostegno pubbliche anche da esponenti del Pd. Ieri erano filtrate nuove tensioni con Delrio, che già un mese fa, dinanzi alle minacce di Minniti, aveva assicurato «nessun porto chiuso, lo dico da responsabile della Guardia costiera e delle operazioni di soccorso ai migranti». Parole critiche vengono anche dal ministro della Giustizia Orlando, «dobbiamo disciplinare il settore senza correre il rischio di una criminalizzazione indiscriminata». L’allarme si fa rosso, Gentiloni sente il presidente Mattarella e si decide la exit strategy: garantire a Minniti un sostegno pubblico totale per il suo operato, come lui ha richiesto. Camminando su un fragile crinale che consenta però anche di non sconfessare la linea più “morbida” di Delrio, Giro e chi la pensa come loro. 

Scongiurato il peggio, evitate dimissioni che avrebbero creato non pochi problemi all’esecutivo, proprio nel momento in cui gli sbarchi invertono la tendenza e nell’opinione pubblica sta passando l’idea che il problema cominci ad essere governato, Minniti può dirsi soddisfatto. Il ragionamento che ha fatto a Gentiloni è chiaro: sono io, in sintesi, quello che da anni, fin dai tempi di Renzi a Palazzo Chigi, tratta costantemente con i libici. Prima da responsabile dei servizi segreti, poi, da dicembre, direttamente da ministro, è lui che ha fatto la spola tra Roma e Tripoli, parlando con il premier Sarraj come coi capitribù, guadagnando il rango di interlocutore con vari attori del complicatissimo panorama libico. Per quanto possa sembrare anomala, la situazione è questa: a chi lo critica, a chi lo definisce troppo decisionista e accentratore, vorrebbe ribattere: e voi dov’eravate? È quello che avrebbe detto loro se fosse andato alla riunione del governo. Ma prima, voleva avere la rassicurazione pubblica che Gentiloni e Mattarella fossero con lui. 




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