Anatomia di una leadership, Mauro Calise

Mauro Calise (*) da: http://www.cittafutura.al.it/
Esaurita l’orgia mediatica delle anticipazioni e glissando sulla litania delle presentazioni, il libro di Renzi va inquadrato – e archiviato – come la sincera autodenuncia dei limiti di un progetto politico. Il renzismo smette di essere il tram dei desideri di rinascita dei progressisti italiani. E si iscrive in una parabola che ha ancora molto da dire. Ma in uno spazio politico, e di movimento, più angusto. Al quale lo stesso ex e neo-segretario Pd mostra di volersi adattare, al di là dei proclami che restano, inevitabilmente, roboanti.
Conviene, dunque, lasciarsi definitivamente alle spalle lo stillicidio delle recriminazioni, che continuano a ruotare sugli eccessi caratteriali: quasi che un leader fosse un’automobile da guidare un po’ più piano o più veloce, e non il pilota che vince grazie al suo estro, e con lo stesso estro spesso va a finire fuori pista. Al posto dei rimbrotti soggettivi, meglio, invece, fare lo sforzo di oggettivizzare Renzi. Vederlo per quello che è. Cosa che il libro non fa alcun tentativo di nascondere. In tal modo, risulta anche molto più chiaro ciò che Renzi non è, e non sarà. O – se proprio vogliamo lasciare un varco alla speranza – molto difficilmente potrà essere. Per amore di chiarezza – e di sintesi – concentrerò l’anatomia del renzismo sui tre nodi – istituzionali e politici – in cui si avvita la crisi italiana. E che Renzi, fino ad oggi, ha provato ma non è riuscito a sciogliere.

Il primo nodo è il partito. Inteso – secondo lo spirito del tempo – come miscela di comunicazione e organizzazione. Al momento, è questo il fallimento principale di Renzi. Quello che all’inizio sembrava il suo asset micidiale si è rivelato, alla lunga, il suo appuntamento mancato. La fase uno di Renzi si racchiude in una parola magica: rottamazione. Forse lo spot di maggior successo sulla scena politica italiana degli ultimi cinquant’anni. Con un impatto comunicativo devastante, che ha consentito all’ex-sindaco di Firenze di spodestare l’oligarchia post-comunista dal trono che deteneva, ininterrottamente, da oltre mezzo secolo. La forza comunicativa del messaggio si è fermata, però, alla parte destruens. Una volta sbarazzatosi dei vecchi capi, quale è stata la proposta organizzativa alternativa? Qui emerge la differenza epocale tra l’operazione di Renzi e quelle con cui Grillo e Berlusconi hanno affermato e consolidato la propria leadership. In questi due casi, una straordinaria penetrazione comunicativa – in tv per il Cavaliere, in rete per l’ex-comico – si è combinata con un modello organizzativo di partito radicalmente nuovo. Il partito azienda con cui Berlusconi ha gestito, con i quadri di Mediolanum e Publitalia, i rapporti tra centro e periferia; e il centralismo cybercratico con cui Grillo – in tandem con Casaleggio – ha controllato la selezione e il disciplinamento di una leva inesperta di parlamentari.
Nulla di paragonabile a quanto Renzi (non) ha fatto nel Pd. La iniziale carica innovativa della Leopolda si è rapidamente diluita nell’accondiscendenza con cui il neo-segretario ha lasciato ai micronotabili il controllo del potere locale. Il paradosso è che questa inazione non è servita a scongiurare l’accusa di essersi fatto un «partito personale». No. Il Pd non è – e difficilmente diventerà – un partito personale, per il semplice fatto che Renzi non ha mai attuato – e nemmeno tratteggiato – una riforma organizzativa che mirasse a sottrarre i circuti del consenso e del reclutamento ai vecchi capibastone. Nel libro, Renzi dedica al partito due (sic!) paginette, che grondano ideologia buonista per la comunità dei militanti che discute nei circoli e prepara frittelle alle feste dell’Unità. Anni luce dall’esercito di nuovo modello di cui avrebbe bisogno per attraversare la palude istituzionale che lo attende all’indomani delle prossime elezioni.
Col che veniamo al secondo nodo, l’impasse di un sistema politico bloccato dalle sue pessime regole istituzionali. Su questo fronte, Renzi può vantare di essersi battuto da leone. E che, persa quella sfida, l’Italia si presenta ingovernabile. Resta il suo merito principale. Ma resta anche il dubbio se si sia trattato della partita giusta. Basta leggere i pezzi di Cassese e Galli della Loggia, ieri e l’altroieri sul Corriere, per sapere che le riforme più importanti di cui l’Italia ha disperato bisogno non sono quelle della carta costituzionale, sulle quali si accendono scontri tanto violenti quanto inconcludenti. Ma è la riforma dei rami bassi, quel connubio vizioso tra malapolitica e pessima amministrazione che fa del nostro paese il luogo del non-potere. Dove nessuno che ha responsabilità di comando – ministro, governatore, sindaco – ha leve istituzionali adeguate per far succedere qualcosa. Anche su questo fronte, l’esordio di Renzi era stato molto promettente. Con la lotta alla burocrazia, e l’impianto della riforma Madia. Ma sono rimasti buoni propositi, fagocitati dallo tsunami referendario. Senza riuscire a diventare quella bandiera di civiltà democratica che sarebbero potuti essere.
Privo di un partito rifondato e capace – in prospettiva – di ampliare il proprio bacino di consensi, e avendo smarrito la bussola di quella ricostruzione dello Stato che poteva essere il vessillo di un riformismo liberale di massa, cosa resta nelle mani di Renzi?
  Alla lunga, la dote principale, il suo vero pedigree sembra consistere in un pragmatismo di governo, ereditato dall’esperienza di sindaco e upgradato – ma non troppo – nei mille giorni a Palazzo Chigi. Non è un caso che a questo aspetto sia dedicata gran parte del libro. E che Renzi continui a parlare – piuttosto che come segretario di partito – come premier virtuale o in pectore. Non si tratta di una dote da poco. Renzi è stato un buon primo ministro. Capace di districarsi con merito sulla scena internazionale, e in grado di mettere insieme numerosi provvedimenti di successo. Prima di dilapidare il tutto nel buco nero referendario, Renzi è stato il miglior Primo ministro che l’Italia abbia avuto da decenni. E in questo ruolo può ancora crescere, se saprà costruire quella squadra che finora – per un mix di inesperienza e di arroganza – non ha avuto al suo fianco.
Vedremo, numeri alla mano, se il boccino dell’esecutivo ritornerà nelle sue mani. Ma sarà un boccino ben diverso da quel disegno riformatore con cui ha ammaliato se stesso e gli italiani. Certo, in politica mai dire mai. Per il momento, però, conviene rassegnarsi al fatto che Renzi non è in grado di rifondare il Pd, e tanto meno lo Stato italiano. I due passaggi ineludibili se davvero il paese volesse svoltare e andare «avanti». Nel frattempo, però, resta ancora il miglior capo di governo a disposizione della Repubblica. Un governo ridimensionato e ammaccato. Ma non per questo meno ambito.

                          (*“Il Mattino”, 23 luglio 2017)

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