Ripensare “geograficamente” un grande pittore del nostro territorio. In giro per il Monferrato sulle orme del Moncalvo

Nuccio Lodato
Devo a un’indimenticabile cara figura, lo scomparso pittore di fede Bahai Arturo Figini, autonominatosi, dal paesino di cui originario nel Tortonese (vi si mangia una delle migliori… pizze del nord-ovest) “il Momperone” (1905-2002), la scoperta di un altro maggior pittore tra ‘500 e ‘600, Guglielmo Caccia detto il Moncalvo. Erano gli anni d’oro ed “eroici” della neofondata Unitre alessandrina, con Giuliana Paravidino, Luciana Martinetti e Teresina Ardito: su imput di Figini, con primo riferimento ai grandi quadri della Cattedrale, si diede mano a un insolito corso pluridisciplinare, in cui la figura e l’opera del maestro astigiano -per me fino a quel momento puro flatus vocis– vennero inquadrate da molteplici punti di vista riguardanti anche il territorio e l’epoca. Era ancora molto viva la ricaduta del magistrale, originalissimo libro di Giovanni Romano, Casalesi del Cinquecento. L’avvento del manierismo in una città padana (Einaudi 1970), la cui prima lettura -lo sto rileggendo con ancora maggiore e più consapevole entusiasmo in questi giorni- fu insieme ABC, orizzonte e bussola primaria dell’operazione.

Poi il tempo passa, le cose cambiano e ci si dimentica magari anche di faccende molto belle in cui sia è capitato di venire coinvolti imparando. Ma ecco il Moncalvo tornare di prepotenza all’attenzione, inaspettato, nel recente pomeriggio domenicale in cui mia moglie Loretta ed io troviamo finalmente il tempo, a Tortona, di andare a visitarci con calma il bel Museo Diocesano, inaugurato con un grosso impegno della Curia tre anni fa. Già nella prima sala intimiditi e ammirati dalla clamorosa ouverture dello strepitoso  Trittico di Annibale Paleologo di Macrino d’Alba (per l’abbazia di Lucedio; prima custodito direttamente in Curia, apre tanto il percorso quanto le 92 tavole, purtroppo in bianco e nero, proprio del libro di Romano). Ma subito dopo lei ed io percossi, passando al lato opposto, da un autentico colpo di fulmine simultaneo -analogo a quello, più intenso e decisivo, che ci colpì reciprocamente quattro anni fa- per il più modesto ma indicibilmente dolce e delicato, facile e “popolare” Moncalvo della Madonna con Bambino e Santi (colpisce particolarmente la figura intenta della “nonna” sant’Anna, che ritroveremo poi pari pari, ad esempio, nel medesimo soggetto dell’attribuito in possesso della Pinacoteca Repossi a Chiari).
Certo, andando di conseguenza a documentarsi un po’, l’appetito verrebbe mangiando, e si avrebbe voglia di risalire agli antecedenti: andando magari a riconquistare Gaudenzio non solo nella facil Novara, ma sulle asperità dell’altrettanto Sacro Monte a Varallo Sesia (con alla mano, come impareggiabile guida, l’inestimabile Testori del Gran Teatro montano), senza trascurare l’omonimo e coetaneo Defendente anche alla sommità della Sacra di San Michele; e lo stesso Macrino  a Pavia, a Crea alla Sabauda, con la memoria all’indimenticabile mostra che fece esplodere a livello nazionale la neo-attività espositiva ad Alba della Fondazione Ferrero nel 2001. Ti viene voglia di progettare giri escusionistici a itinerario dettagliato, per vederne il più possibile, di lui e della figlia-allieva suor Orsola Maddalena, confidando con forti dubbi di trovare piccole parrocchiali od oratorii desueti aperti, compulsando con attenzione orari di musei, nella speranza di ritrovarvi effettivamente promesso dall’ufficialità catalogante. Sarebbe l’inseguimento dell’arte qui davvero “povera” -“altari della gloria popolare”, sia pure versificato in altro contesto…- tante volte evocata dal Pasolini maggiore, memore allievo di Roberto Longhi e della sua “fulgurazione figurativa”, nell'”umile Italia” delle Ceneri di Gramsci.
Un appassionato, conseguente tentativo di inventario topografico della collocazione delle opere di Guglielmo, in corso di espletamento per il dossier monografico che un importante bimestrale di cultura del nostro territorio, coinvolto nel colpo di fulmine, si appresta a realizzare entro l’anno, può dare una piena idea, pur essendo tuttora in corso e probabilmente destinato a restare incompleto, aperto e perfettibile, della capillarità di presenza e diffusione del lavoro del maestro, della sua bottega e dei seguaci (segnatamente Giorgio Alberini e Giovanni Crosio). Oltre che nei rispettivi capoluoghi, sono presenti opere, nell’alessandrino, almeno ad Alfiano, Altavilla, Balzola, Borgo S. Martino, Bosco Marengo, Camagna, Casalcermelli, Casale (ricco giacimento), Castelletto Monferrato, Cerrina, Coniolo, Crea (fondamentale), Felizzano (un’Intercessione di san Francesco ripresentata a restauro ultimato pochi anni fa), Frassineto, Garbagna, Giarole, Lu, Melazzo, Morano, Murisengo, Pontestura, Sala, San Salvatore, Solero, Solonghello, Tortona, Treville, Valenza e Villadeati (ma c’è certo dell’altro). Nell’astigiano, Callliano, Casorzo, Castagnole, Grana, Grazzano B., Moncalvo (mancherebbe…), Mombercelli, Montabone (natìo), Montemagno, Penango -soprattutto nella sua frazione Cioccaro- e Villanova. Nel biellese a Rosazza; nel cuneese a Guarene (l’esordio discusso ma capitale); a Novara; nel torinese anche a Chieri e Moncalieri; in provincia di Vercelli pure a Bianzé, Crescentino, Larizzate e Trino. Fuori regione, la parte del leone la fa la contigua Lombardia (il Caccia ebbe anche casa temporanea a Pavia): a partire da molteplici chiese importanti e raccolte pubbliche e private di Milano, per non dimenticare sporadiche ma significative prove custodite a Bergamo, Brescia, Cremona, Monza e nel Varesotto (con appendice in Canton Ticino, a Casalzuigno). Particolare rilevanza assume, come anticipato, il Pavese: Candia Lomellina ospita alcune delle opere più significative, altre ce ne sono a Castello d’Agogna, Ferrera, Mortara e Rosasco. Ma anche il capoluogo conserva in più di una chiesa cose di rilievo, e soprattutto è stato testimone, a seguito del tragico crollo con vittime della torre campanaria della Cattedrale (17 marzo 1989), del rocambolesco recupero di quel fondamentale Padre eterno tra gli Angeli che si presumeva rubato o comunque perduto da tempo immemore, e fu rinvenuto danneggiatissimo, un grande cilindro anonimo avvolto in vecchi giornali, durante l’intervento ricostruttivo seguitone.
Quello della pittura piemontese-lombarda a cavallo tra XVI° e XVII° secolo è un tema appassionante: molto pittori “provinciali” toccano i centri più vivi dell’epoca, da Roma alla Toscana, dall’Emilia al Veneto, e tornano a casa pronti a immettersi in quella grande corrente designata in termini generali come manierismo e a superarla. Nello specifico più ristretto del nostro territorio, c’erano stati da una parte gli Spanzotti, il genero fiammingo Grammorseo e il loro allievo Defendente Ferrari, dall’altra Gandolfino; era pervenuto Caroto, aveva fatto scuola alla grande Gaudenzio, ma senza dimenticare Gerolamo Giovenone, Sebastiasno Novelli e Ottaviano Cane). Moncalvo subentrerà più tardi, come intimidito dal peso di questa grande e ricca tradizione coeva vicina, quando alcuni mutamenti storici e religiosi, politici e culturali, sono già stato acquisiti e fanno avvertire le proprie conseguenze: l’estinzione dei Paleologi e il travagliato subentro dei Gonzaga a Casale da Mantova, la conseguente crisi culturale originata prima dalla politica accentratrice e livellante di Carlo V, le ricadute profonde e a largo raggio del Concilio di Trento, la relativa precettistica estetico-pittorica fissata di conseguenza dai due cardinali ambrosiani: prima Carlo Borromeo con le sue Istruzioni, poi il cugino Federico, quasi mezzo secolo più tardi, con il Della pittura sacra. E scomparendo appena in tempo per risparmiarsi il disastro della guerra immortalata nei Promessi sposi. Ma entrerà in gioco a suo vantaggio una fitta rete di collaborazioni e influenze coi prodromi della grande pittura del secolo successivo (quella “fissata” una volta per tutte da Giovanni Testori con la mostra-pietra miliare sul “Seicento lombardo” a Palazzo Reale di Milano nel ’73): non tanto col suocero Oliva, quanto via via coi Lanino, latori della lezione di Gaudenzio; con Campi, col Vasari di Santa Croce a Bosco, Cerano, Federico Zuccari con cui lavora alle opere perdute di Torino, come poi con Daniele Crespi a Milano, come si ricorderà nelle ultime righe del testo con cui, ancora una volta, proprio l’impagabile genialità critica di Giovanni Testori ha compendiato fin dall’origine la questione Moncalvo. Ecco dunque, a conclusione, questa insostituibile pagina introduttiva alla “Mostra del Manierismo piemontese e lombardo del Seicento” (Museo Civico di Torino e Centro Culturale Olivetti di Ivrea, siamo nel 1955! Poi ristampato da Amilcare Pizzi –Manieristi piemontesi e lombardi del ‘600– nel 1966, e infine nel magnifico volume compendiante La realtà della pittura, a cura di Marani, Longanesi 1995) che consente una sintesi assoluta della questione:
«Il primo pittore che s’incontra, sia perché il passaggio dai gaudenziani ai nostri manieristi non risulti troppo repentino, sian perché tale fu la sua parte anche nella storia, è Guglielmo Caccia, soprannominato il Moncalvo: e non perché a Moncalvo avesse avuto i natali (egli nacque infatti a Montabone, presso Acqui, intorno al 1565)[1] ma perché di Moncalvo fece assai presto la sua seconda patria; tanto che, raccolti i multos nummos guadagnati nel copioso lavoro, vi eresse un monastero, dove ad una ad una si rinchiusero ben cinque delle sei figlie, due delle quali, Orsola Maddalena e Francesca, illanguidirono fino all’ex-voto la già languida pittura del genitore. Languida e tuttavia d’una dolcezza, “d’una gratia”, che il Borsieri già nel 1619 poteva dire che “feriva nel cuore de’ divoti”.
Partito come compagno dei Lanino, più esattamente di Pierfrancesco e Gerolamo (vedi i lavori in San Michele di Candia Lomellina), dove poté stabilir contatti, forse dalla posizione di privilegio che ebbe nei confronti di Vincenzo Gonzaga, duca di Mantova e del Monferrato, con gli esponenti più cronachistici dell’ultimo manierismo tosco-emiliano: tale contatti furono letti e proposti assai bene dalla Gregori. Ora, senza addentrarci in una questione per la quale non pare questa l’occasione più adatta, mi sembra invece utile ricordare come già il Lanzi citasse, quali maestri d’adozione del Moncalvo, nomi tutti d’interesse manieristico, e cioé: “Raffaello, Andrea del Sarto e il Parmigianino”. Naturalmente tali contatti si precisarono e accrebbero con la venuta dello Zuccari a Crea (1604) o forse, sempre a proposito dello Zuccari, anche prima, allorché per salir nelle Fiandre egli si trovò ad attraversare una prima volta il Piemonte.
Al di là dunque del suo personale valore di poesia, che esiste anche se tenue, o proprio perché tenue e delicato, il Moncalvo interessa la storia dei nostri manieristi per l’avvìo che diede ad operare nella tradizione gaudenziana gli inserti “di leggiadria cui inclinavalo il suo animo”. Sarebbe però inesatto non riconoscere che, subito dopo i primi anni del Sei, nei confronti dei compagni minori d’età ma maggiori di poesia, fu lui a prendere, anziché a dare. Operando tra Piemonte e Lombardia, massime tra Novara e Milano, fino al 1626[2], che è l’anno della sua morte, il Moncalvo legò così il suo destino, con alti e bassi alterni, a gran parte della crisi manieristica. E io credo che per quella sua affettuosità mai tradita (neppure, si pensi, nei lavori più velleitariamente giganteschi, quali la cupola della Chiesa milanese di San Vittore) egli poté perfin caldeggiare il tentativo che vedremo compiere dal Nuvoloni e da Daniele; tanto più che documenti e opere indicano che Daniele frequentò per qualche tempo proprio il suo studio».
[1]    Data poi definitivamente documentata e fissata al 9 maggio 1568, a Montabone (Asti).

[2]    Il pittore sarebbe in realtà morto a Moncalvo il 13 novembre 1625. La figlia Teodora, poi suor Orsola Maddalena, natavi nel 1596, vi sarebbe mancata ottantenne nel convento realizzato dal padre a beneficio suo e delle sorelle.

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