Il nuovo libro di Renzi: “Quanti errori sulla Libia. In Italia ancora nessuno ha fatto vera autocritica”

ANSA
MATTEO RENZI
Durante il G7 di Ise-Shima in Giappone del maggio 2016 apriamo i lavori con una cerimonia scintoista molto suggestiva. Nel silenzio della visita mi astraggo mentalmente per un momento dal rigido protocollo nipponico per ripassare tutti i particolari del G7 successivo, quello che abbiamo deciso di portare a Taormina contro tutto e contro tutti. Un autorevole leader internazionale due anni prima mi ha fatto una battutaccia sulla mafia e la Sicilia. E la mia reazione era stata secca: “Pensate questo del mio paese? Bene. Allora anziché a Firenze il G7 lo facciamo in Sicilia”». (...) 

La Casa Bianca  
Proprio alla fine della cerimonia scintoista, mentre ci avviciniamo in un’altra area sacra per piantare degli alberi, mi si accosta Obama. “Ho un’idea per te.” 
“Per me?” “Sì. Mi piacerebbe che l’Italia fosse l’ospite della mia ultima cena di stato alla Casa Bianca. Ci tengo molto, e ++vorrei organizzare una grande visita, magari tra settembre e ottobre.” Camminata finita. Io, ovviamente, entusiasta. “Non dire nulla, annunciamo tutto più in là. Ma se sei d’accordo, affare fatto: chiudiamo in bellezza, chiudiamo con l’Italia.” È un piccolo gesto, ma un grande riconoscimento.  
Tornato in Italia, rifletto sull’invito di Obama. Mi rendo conto che non è un omaggio al governo, ma al nostro paese. Così decido di non dare al viaggio un tono troppo istituzionale, spiegando a tutti i ministri cortesemente invitati dai loro interlocutori che possono restare a casa: niente di personale, ma non porto in gita il governo. Con me verrà solo il ministro degli Esteri, Gentiloni. Gli altri resteranno qui a lavorare. 
Mi dedico quindi a comporre una delegazione rappresentativa del nostro paese, e parto dalle donne. (...) 


Benigni e il “dittatore”  
Tornando alla delegazione, naturalmente siamo onorati della presenza delle grandi icone. Giorgio Armani è l’ospite d’eccellenza per la moda, e non potrebbe essere diversamente. John e Lavinia Elkann, che rappresentano l’azienda italiana che ha salvato un pezzo dell’industria automobilistica americana con l’operazione Fiat-Chrysler, siedono giustamente al tavolo d’onore. E poi c’è il mondo del cinema, con Nicoletta Braschi, Roberto Benigni e Paolo Sorrentino. 
Che danno vita a un siparietto che purtroppo noi ci perdiamo e che nessuno – ahimè – ha filmato. Chi lo ha visto racconta sia degno di Amici miei, con Sorrentino che cerca di fumare nel giardino della Casa Bianca, forse il luogo più antitabagista del pianeta sotto la presidenza Obama, spalleggiato da Benigni nel dialogo con la sicurezza americana. 
In compenso, appena rientrato dentro la Casa Bianca e portato alla stretta di mano col presidente, Benigni parte: “Stai attento, Barack, che questo che hai accanto,” dice indicandomi con sguardo truce e portando la mano all’orecchio del presidente, “è un pericolosissimo dittatore. Lo sappiamo tutti in Italia. Facciamo anche un referendum per questo. Ricordatelo: è un dittatore”». (...).  

Obama preoccupato  
Dell’ultimo incontro alla Casa Bianca non porto con me solo la gioia per un ritrovato prestigio internazionale dell’Italia o per la cerimonia ufficiale, durante la quale riconosco a Obama che la storia sarà generosa con lui perché lui ha provato a cambiarla. Porto con me anche alcune conversazioni strategiche. La grande preoccupazione per l’Europa del presidente americano uscente: “Paradossalmente, siete voi europei in questo momento la frontiera più inquieta,” mi dice. 
Ed è vero. Obama capisce ciò che i leader riluttanti fingono di non vedere, e cioè che il progetto europeo ha bisogno di nuova linfa, altrimenti rischia di finire su un binario morto. E soprattutto rischia di diventare facile preda dei populisti e dei sovranisti. L’unico modo per rispondere all’offensiva non è difendere lo status quo, ma rilanciare l’ideale europeo. Obama lo ha chiaro, chiarissimo. Molto più chiaro di tanti leader continentali, compressi da una visione burocratica. (...). 

Il referendum  
Mentre Obama mi parla, pregusto il momento in cui anche l’Italia finalmente avrà un sistema semplice. Basta un Sì al referendum, mi dico. Purtroppo è un Sì che non arriverà mai, e la speranza di conoscere anche in Italia la sera stessa delle elezioni chi governerà il paese andrà a infrangersi contro il risultato negativo del referendum costituzionale. Nei mesi dopo l’esito della consultazione del 4 dicembre in tanti si sono lamentati del rischio palude, dei difetti del proporzionale, della mancata possibilità di avere governi stabili. Ma piangere sul latte versato non serve, non basta. 

La Consulta  
Il destino è non meno beffardo con il presidente Obama. Perché il passaggio di consegne sarà, sì, ordi nato. La telefonata di concessione sarà, sì, effettuata con tutti i crismi. Ma il vincitore sarà Donald Trump, non Hillary Clinton. Nessun errore nei sondaggi: il voto popolare vedrà prevalere la candidata democratica per quasi tre milioni di voti. Ma il voto dei delegati dà un altro responso, facendo passare il voto popolare in secondo piano: sarebbe curioso conoscere la tesi della nostra Corte costituzionale in proposito, vista la giurisprudenza sulle leggi elettorali maturata negli ultimi anni. (...). 

Obama e il clima  
Personalmente, considero straordinariamente positivi i risultati dell’Accordo di Parigi sul clima del 2015, e ho visto con i miei occhi la tenacia di Obama nei confronti di cinesi e indiani, in primis, anche negli ultimi incontri con il primo ministro Narendra Modi direttamente a Parigi. Siglare all’Onu l’accordo sul clima è stata una delle emozioni più grandi della mia esperienza al governo. (...). 
Sicuramente controverso il giudizio sul Mediterraneo del Sud, il Nord Africa. Dall’Egitto alla Libia, molte sono le questioni rimaste aperte. Ma Obama ha avuto il coraggio di ammettere – da presidente ancora in carica, in un’intervista a “The Atlantic”, ed è stata una prima volta – di aver sbagliato in Libia. 

Libia, le colpe italiane  
L’intervento in Libia si è rivelato un dramma totale. Del quale dovrebbero scusarsi in tanti, a cominciare da Cameron e Sarkozy. Le foto dei due leader accerchiati dalla popolazione festante di Bengasi hanno avuto grande risonanza mediatica nei loro paesi, ma non hanno certo aiutato la composizione di un puzzle tribale difficilissimo. Forse anche in Italia è mancato un giudizio critico, e autocritico, sull’atteggiamento del paese e del governo in quel delicato passaggio. Nessuno tra gli autorevolissimi protagonisti istituzionali di quella scelta – a differenza di Obama – ha mai avvertito l’esigenza di una sana autocritica. Stiamo ancora pagando le conseguenze di quella scelta del 2011 in termini di ridimensionamento del nostro ruolo nel Mediterraneo, ma soprattutto di afflusso impressionante di migranti. Migranti che, complice un sistema statuale indebolito, arrivano in Libia da mezzo mondo e da Sabrata tentano l’approdo nel nostro paese, attraversando quel Mediterraneo che è frontiera ma anche collegamento tra Europa e Africa. 


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