E poi dici che nessuno fa più figli

(Chiara Saraceno per la Repubblica) - Decidere di avere un figlio per una donna occupata è rischioso sul piano economico. Non solo perché, ovviamente, aumentano i costi diretti, ma perché mette a rischio la continuità occupazionale ed anche se questa tiene, provoca nel medio e lungo periodo una perdita secca sul piano salariale, quindi in prospettiva anche sulla pensione futura. Il rapporto annuale Inps di quest' anno ha stimato l' ordine di grandezza di questo costo per le occupate nel settore privato.
Considerando tutte le donne che erano occupate prima della nascita del figlio, a 24 mesi dalla nascita di questi si osserva una perdita secca del 35%. L' enormità della perdita è dovuta principalmente al fatto che una quota di donne non torna al lavoro al termine del congedo di maternità e genitoriale, e qualche volta anche prima, perdendo tutto il reddito da lavoro. Come documenta l' Istat da anni, infatti, quasi una madre su quattro tra quelle occupate lascia il lavoro nei due anni successivi alla nascita di un figlio ed il fenomeno è in aumento negli ultimi anni.
Difficoltà di conciliazione famiglia- lavoro, orari e organizzazione del lavoro poco amichevoli, una divisione del lavoro famigliare tra madri e padri ancora asimmetrica, ancorché in lieve miglioramento, servizi per la prima infanzia scarsi e costosi, oltre a mancati rinnovi di contratti precari o a tempo determinato - tutto ciò spinge molte neo-madri a rinunciare almeno temporaneamente all' occupazione, salvo trovare difficoltà a rientrare più avanti. Ma il costo rimane anche al netto delle uscite dal mercato del lavoro.

L'Inps lo stima in una perdita del 10% rispetto al salario pre-maternità, che si trascina anche negli anni successivi. Non sorprende, allora, che le madri occupate guadagnino in media non solo meno dei padri occupati, ma anche delle occupate senza figli: circa il 10%.
Più sorprendente è che le madri si trovino in questa posizione di svantaggio rispetto alle non madri pur essendo partite da una posizione di vantaggio.
Secondo i dati Inps, infatti, le donne che poi diventano madri prima di avere un figlio guadagnano in media il 10% in più di quelle che nello stesso periodo non lo diventano. Le prime, infatti, sono più spesso delle seconde in rapporti di lavoro a tempo indeterminato, a conferma di ciò che aveva già evidenziato qualche anno fa Linda Laura Sabbadini sulla base dei dati Istat: è più difficile per una donna con un contratto di lavoro precario, o a tempo determinato decidere di avere un figlio (ed anche di uscire dalla casa dei genitori e andare a vivere con un partner).
Solo quando si ha un contratto ragionevolmente sicuro ci si può permettere il lusso di avere un figlio senza temere di perdere automaticamente il lavoro ed avendo il tempo necessario - congedo - per accoglierlo. Per questo l' età al primo figlio si sposta sempre più avanti. Ma una volta che il figlio arriva si perde tutto il vantaggio, almeno in termini salariali.
Si può pensare che questo esito negativo sia imputabile alla prolungata assenza dal lavoro per congedo di maternità e genitoriale. È l'ipotesi che soggiace all' introduzione, nel 2012, del bonus infanzia: un contributo fino a 600 euro mensili per pagare un nido o una babysitter in cambio della rinuncia a tutto o parte il congedo genitoriale. I dati Inps mostrano che, in effetti, chi ha potuto fruire del bonus è tornata prima al lavoro, contenendo quindi la decurtazione di salario (l'indennità di congedo genitoriale copre solo il 30% dello stipendio).
Ma una volta che termina il bonus non si trovano in una situazione differente da quella delle madri che non ne hanno fruito. Perché rimangono tutti i problemi di come conciliare l'occupazione con la cura di un bambino piccolo, in una situazione di organizzazione del lavoro spesso rigida, servizi scarsi e costosi (specie nel Mezzogiorno, dove è più alta la percentuale di madri che hanno richiesto il bonus) e una insufficiente collaborazione paterna.
I padri, in effetti, non solo non fruiscono se non in percentuali bassissime del congedo parentale. Riescono anche, per scelta o costrizione(da parte del datore di lavoro), a non fruire neppure dei due giorni di congedo di paternità obbligatorio introdotto nel 2012.
L'Inps documenta che, su 230.000 nascite che si può stimare abbiano coinvolto nel 2015 padri lavoratori dipendenti nel settore privato, solo 72.000 hanno preso il congedo obbligatorio di paternità, più nelle grandi che nelle piccole imprese, più nel Nord che nel Mezzogiorno, più tra gli impiegati e funzionari che tra gli operai.
L'Italia è un paese insieme a basso tasso di occupazione femminile e a bassissimo tasso di fecondità. I due fenomeni sono collegati tra loro e non hanno a che fare solo con le difficoltà che i giovani, donne e uomini, incontrano nel mercato del lavoro, ma anche con la persistenza del prezzo pesante e ingiusto che le donne pagano quando diventano madri.


Commenti

Post più popolari