Diseguaglianze d’Italia, Mario Deaglio

L’Italia conta 307 mila famiglie milionarie, pari all’1,2% del totale, che possiedono il 20,9% della ricchezza finanziaria italiana. Per Mario Deaglio la crescente diseguaglianza “non è dovuta tanto alla concentrazione dei soldi quanto al loro impiego. Il denaro rischia di ammuffire nei conti correnti mentre chi avrebbe progetti su come impiegarlo fatica a trovare finanziamenti”.
MARIO DEAGLIO
Oltretrecentomila famiglie italiane (l’1,2 per cento del totale) sono «milionarie»: al di là dell’apparente sensazionalismo, questa stima della ricchezza finanziaria del nostro Paese, dovuta al Boston Consulting Group, una stimata organizzazione americana di ricerche sui patrimoni, rientra nella più assoluta «normalità». È infatti del tutto coerente con lo studio più recente, e di ben altra profondità, della Banca d’Italia, che non ha scandalizzato nessuno, secondo il quale, nel 2014, il 20 per cento degli italiani più ricchi deteneva il 64,6 per cento della ricchezza finanziaria (e il 20 per cento più povero solo l’1 per cento).   
Oltre a non essere certo una novità, la disparità tra ricchi e poveri sta aumentando in tutto il mondo – e in particolare nei Paesi dai redditi più elevati - e in questo aumento l’Italia si colloca all’incirca a metà classifica. A spingere l’aumento intervengono in primo luogo motivi demografici: la ricchezza si concentra nell’età anziana e il numero degli anziani, e quindi anche degli anziani ricchi, cresce mentre la popolazione nel suo complesso è stazionaria. In secondo luogo, i patrimoni finanziari hanno beneficiato della «bolla» di quotazioni azionarie che va pericolosamente avanti ormai da diversi anni. 


Ciò che complica il discorso in Italia non è tanto la concentrazione della ricchezza finanziaria quanto il suo impiego. Gli anziani comprensibilmente scelgono impieghi almeno apparentemente sicuri, come i titoli del debito pubblico; o addirittura lasciano i risparmi in forma semiliquida, il che riduce la possibilità delle banche di prestarli a chi vuol fare investimenti, creando posti di lavoro. Il denaro rischia di ammuffire nei conti correnti mentre chi avrebbe progetti su come impiegarli fatica trovare finanziamenti. A denaro «ammuffito» corrispondono così una creazione insufficiente di posti di lavoro e liste assurdamente lunghe di candidati ai concorsi pubblici. Lo si è visto ieri a Genova, dove l’afflusso di migliaia di aspiranti a una manciata di posti di infermiere alle prove concorsuali ha addirittura bloccato il traffico; come a Roma, una quindicina di giorni fa, a un concorso per lavorare alla Banca d’Italia. 


Non ci sono soluzioni facili a questo incancrenirsi del problema e soprattutto nessuna forza politica lo affronta in maniera coerente e ragionata. L’inasprimento fiscale di per sé rischierebbe di produrre il risultato opposto, spingendo i capitali finanziari a tornare a «nascondersi». Potrebbe forse essere incentivato il trasferimento di una parte delle risorse famigliari alle generazioni più giovani, senza attendere che gli anziani passino a miglior vita: sicuramente i giovani ne farebbero un uso più dinamico e il ritmo della crescita aumenterebbe, creando più numerose occasioni di lavoro. L’argomento è però accuratamente ignorato o passato in secondo piano negli abbozzi di programma per le prossime elezioni, oscurato dal discorso sulla tassazione delle case. E così le diseguaglianze continuano a crescere e le code ai concorsi pubblici continuano ad allungarsi. 

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