A volte si rompono, Filippo Fontefrancesco

Filippo Fontefrancesco, da: http://www.cittafutura.al.it/
A volte si rompono, i partiti come i rapporti umani. Leggere in questi giorni del dibattito romano, delle possibili frammentazioni all’orizzonte colpisce, un po’ per tedio, un po’ per dispiacere, un po’ per incredulità: tedio, perché dal 2007 il dibattito circa la tenuta del partito, delle varie sue anime, non si è mai zittito; dispiacere, perché per chi ha creduto e lavorato per costruire nel piccolo e nel grande un progetto politico capace di dare risposte superando schematismi novecenteschi vedere come un’idea si stia distruggendo sulla base di cordate di interessi personali non può che dispiacere (e far un po’ in****are); incredulità, perché di fronte a tutto questo malsano spettacolo ci si domanda se veramente può essere come appare e purtroppo sembra proprio che lo sia.
Nel grande come nel piccolo dei territori, il PD ha mostrato più e più volte la sua fragilità strutturale: primarie interpretate come corsa all’ultimo elettore; tesseramenti online incontrollabili; congressi fatti con regole che di volta in volta cambiano per piacere al gruppo di potere di turno; rapporti spesso conflittuali e antagonistici tra partito e amministratori; un appiattimento della volontà di analisi ad una retorica dell’orgoglio delle origini e della certezza di un futuro.

Se la struttura è quindi debole, figlia legittima di un’idea di partito leggero che ha plasmato dall’evo veltroniano il partito, il popolo riformatore resta l’elemento di forza: un popolo però che ha smesso di allargarsi ed ha iniziato ad allontanarsi da un progetto politico per ritornare in poltrona, decidendo sulla base dell’ultimo momento se o se non andrà al voto, se o se non voterà il mondo riformatore.
Di fronte a questo spaesamento il dibattito corrente, la retorica assunta dal partito scimmiottando parole e gesti della destra, al suono del “prima noi!”, non fa che disorientare, amareggiare, allontanare. Un tempo forse in una situazione come l’attuale avremmo avuto l’occupazione delle sezioni da parte degli iscritti, la richiesta di un nuovo congresso ed altre reazioni che oggi, nel mondo che ha accettato la politica del “Vaffa” si riducono spesso da un lato in abbandoni e disimpegno, dall’altra in silenzi sfocianti in fratture. Se le cose stanno così, ci sarebbe da pensare su cosa ci aspetta domani e cosa fare per il futuro.
In un momento storico di tale smarrimento da portare il segretario nazionale a parlare dell’opportunità di cambiare nome e pelle, il Partito Democratico deve ritrovare una voce, una lingua comune a sé stesso, capace di non scimmiottare le parole e i modi di altri, solo perché momentaneamente alla moda. Con la lingua vengono quindi le prospettive, gli obiettivi, scegliendo una strada, senza il prurito di voler cambiarla un minuto dopo. Questa sarebbe semplice normalità, oggi orizzonte rivoluzionario, brillante utopia. L’alternativa alla normalità la conosciamo, la viviamo e sappiamo dove porta. Però, dobbiamo star sereni, i governi non cadono d’estate e tanto più i partiti non si possono rompere e morire, no?



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