Il futuro dell’Europa, Marco Ciani

Tre eventi ravvicinati degli ultimi giorni mi hanno indotto a qualche semplice riflessione estiva sul futuro dell’Unione Europea:
la morte del padre della riunificazione tedesca, Helmut Kohl (16 giugno);
il secondo turno delle elezioni legislative francesi, stravinte da En Marche, il partito europeista del neo presidente Emmanuel Macron (18 giugno)
l’avvio dei negoziati tra Europa e Regno Unito per la Brexit (19 giugno).
Tra i tre episodi non sussiste alcun collegamento diretto, ma ragionarci può essere utile per provare a immaginare una qualche traiettoria per la casa comune continentale, un po’ come si fa unendo i puntini per ottenere un disegno in una celebre rivista settimanale di enigmistica.
Partiamo da Kohl e dalla Germania. Il cancelliere democristiano si trovò a gestire, all’indomani del crollo del muro di Berlino, il complesso processo di ricomposizione delle due repubbliche tedesche, occidentale e socialista.
La prospettiva si presentava affatto indolore. Non mancarono tra i partner europei, ed era perfettamente comprensibile, i timori per la ricostituzione di una nazione, tradizionalmente aggressiva, che nel corso del XX secolo aveva prodotto due guerre mondiali disastrose e un numero indicibile di morti.

Una vecchia volpe della diplomazia come Giulio Andreotti arrivò a dire che “siamo così affezionati alla Germania da volerne due”.
Ma non fu questa l’unica fonte di preoccupazione. Un altro motivo considerevole era rappresentato dal venir meno del tradizionale equilibrio franco/tedesco sul quale poggiava l’intera costruzione continentale, con la Germania più robusta economicamente e dotata di una moneta, il marco, particolarmente forte, ma bilanciata dalla Francia grazie alla propria supremazia militare (e nucleare) e dal ruolo privilegiato quale membro permanente e dotato quindi del potere di veto in seno al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Kohl, con la collaborazione determinante di un grande presidente francese come François Mitterand, seppe rassicurare gli alleati, imprimendo alla costruzione continentale un’accelerazione, in particolare grazie al trattato di Maastricht del 1992 che istituiva l’Unione Europea e che prevedeva, tra l’altro, il completamento dell’Unione Economica e Monetaria.
Quest’ultimo punto, in particolare, presupponeva l’introduzione di una nuova moneta comune, l’Euro e la nascita di una banca centrale continentale, la BCE. Tutti gli analisti più accreditati concordano sul fatto che la rinuncia al marco costituì la causa più probabile della fine politica di uno dei maggiori statisti europei del ‘900. Ma Kohl, ben consapevole del rischio, preferì una scelta lungimirante e scomoda, alla quasi certa rielezione.
L’embrione di quello che fu l’avvio dell’Europa politica ci porta, con un notevole salto, ai giorni nostri. La Francia che fino a poche settimane fa sembrava preda dell’ondata crescente di populismo personificato da Marine Le Pen e dal suo Fronte Nazionale, ha quasi miracolosamente trovato una soluzione chiara e innovativa che la ricolloca nell’alveo delle grandi nazioni europee.
Va considerato che Macron, un banchiere già ministro del governo socialista, ha avuto il fegato, contro ogni evidenza, di puntare su una più stretta integrazione, senza timore di farsi riprendere durante la campagna presidenziale con la bandiera azzurra a dodici stelle dietro le spalle. L’elettorato l’ha premiato grazie a una vittoria travolgente che lascia ben sperare per una ripresa della spinta franco/tedesca in direzione di un completamento della casa comune europea.
Sul versante opposto incontriamo il Regno Unito dove la premier conservatrice Theresa May, priva di una reale maggioranza in parlamento, si trova a dover gestire da oggi la Brexit in una condizione di estrema debolezza, avendo pagato caramente l’azzardo di indire le elezioni anticipate nella speranza di una vittoria travolgente che si è presto trasformata in un incubo, tanto da essere ormai definita dai suoi stessi compagni di partito un “morto che cammina”.
La Gran Bretagna, dopo le prime fasi convulse, ha già iniziato a pagare il conto dell’uscita con un’inflazione che si impenna, un potere di acquisto dei salari che punta decisamente verso il basso e importanti aziende industriali e finanziarie che stanno immaginando verso quali lidi emigrare per mantenere l’accesso al mercato europeo, il tutto in una situazione di caos politico.
In conclusione, a me pare che malgrado mille contraddizioni destinate a perdurare, il processo di integrazione sia destinato fatalmente a procedere. Le condizioni economiche e tecnologiche, prodromiche rispetto a quelle politiche, sembrano spingere in quella direzione. La Grecia l’ha sperimentato pochi anni fa, dopo l’ubriacatura impressa da Syriza. Presto, partendo da una condizione completamente diversa, lo proveranno anche gli inglesi.
Ciò non significa né che assisteremo a un progresso lineare, né che verranno meno le contraddizioni, gli stop temporanei o le improvvise retromarce. Ma la linea, a meno di sconvolgenti cataclismi, sempre possibili, appare tracciata.
Resta in piedi, in tutta la sua pregnanza, il fatto che l’Europa continua a soffrire di un deficit di legittimazione democratica. In altri termini, l’approccio funzionalista, risalente principalmente a David Mitrany sotto il profilo teorico e a Jean Monnet sotto quello politico, secondo il quale si poteva partire mettendo in comune aspetti contingenti, per esempio economici (inizialmente il carbone, l’acciaio, l’energia atomica, più tardi il commercio, l’agricoltura, la finanza, la moneta, etc.) mostra la corda.
Risolverlo, sapendo che non si tratterà molto probabilmente nemmeno in questo caso di un processo semplice e rettilineo, rappresenta la sfida più impegnativa di sempre per il Vecchio Continente. Se anche l’altra grande nazione europea, l’Italia, iniziasse finalmente a pensarci, invece di starnazzare quasi quotidianamente in modo tanto scomposto quanto ingiustificato contro l’Euro e l’austerità, pure noi potremmo guardare al futuro con maggiore fiducia.




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