Alessandria, Piazza Santa Maria di Castello e la storia della Chiesa

by Pier Carlo Lava
Alessandria: Prosegue il nostro percorso per realizzare un reportage fotografico della città, alfine di evidenziare con immagini e una breve descrizione, le caratteristiche salienti di ogni singola zona, in questa prima fase documenteremo il Centro, ma in seguito andremo anche in periferia. Dopo i Post relativi al ponte Meier, pazza Gobetti, piazza Santo Stefano, via Milano e piazzetta Santa Lucia, ora siamo giunti in Piazza Santa Maria di Castello.

R. Livraghi
La storia dell’antica Chiesa di Santa Maria di Castello, di R. Livraghi:
LA CHIESA “INFRA CASTRUM”: SANTA MARIA DI ROVERETO
Omnes oves quae faciunt agnellos in curia portae Roboreti, dant ... decimam de agnis ecclesiae s. Mariae de Castello.
Queste parole ricordate dal Chenna e tratte da un atto del 1222, descrivono con efficacia l’importanza che Alessandria ha a lungo riconosciuto alla chiesa e al convento di santa Maria di Castello. L’antichità della fondazione, la centralità nella vita urbana in epoca precomunale e comunale, hanno contribuito alla definizione di un’immagine che ha sovente assunto contorni leggendari e talvolta simbolici. A questo interesse, particolare ma anche incostante, da parte della comunità locale, ha corrisposto un andamento alterno anche nella considerazione storiografica.
Le fonti più antiche
Gli scritti degli analisti locali che ci sono pervenuti si collocano tra la metà del Cinquecento e la metà del Seicento. Questi autori per il carattere compilatorio dei loro lavori dedicano al tema di santa Maria di Castello cenni rapidi, ma non per questo meno importanti. Dalle loro pagine emergono infatti le testimonianze più antiche che, nonostante i limiti, possono ancora rivelarsi di qualche utilità.
Il primo in ordine di tempo è forse il giurista alessandrino Raffaele Lumelli, vissuto nel XVI secolo e autore di una pregevole cronaca il latino che illustra le vicende cittadine dalle origini al 1586. Ecco come nei suoi Commentaria accenna al tema di Rovereto:

“Sia per l’antichità del fatto, sia per lo scarso numero degli scrittori, non ho potuto accertare in quale epoca sia stato fondato. Questo solo mi è noto e chiaro: che un tempio in onore a santa Maria di Castello venne costruito dagli stessi abitanti in quel luogo in cui un tempo si trovava il castello di questo villaggio e che tuttora conserva un certo dislivello restando leggermente più in alto rispetto al resto della città”.
Lumelli è anche la fonte originaria della notizia, poi ripresa da Ghilini e Chenna, del compimento di importanti lavori nel 1510: “Con l’aiuto della città e con altre donazioni di persone pie, la chiesa fu portata a quello splendore che ha ancor oggi”.
Poco oltre, sotto la data 1584, fornisce un altro riferimento cronologico: Gli edifici sacri sono di grande magnificenza e dimensione e di molto splendore: fabbricati per ospitarvi numerosi sacerdoti, in quest’anno in cui scrivo, il 5 novembre 1584, gli stessi monaci che sono Canonici Regolari dell’Ordine Agostiniano, li ornarono con ulteriori nuove opere e apparati, così che nulla manchi per una vera magnificenza”.Nessun cenno particolare è dato invece ritrovare negli Annali di Guglielmo Schiavina, canonico della Cattedrale e ricercatore di memorie patrie: ma questo lavoro, com’è noto, costituisce una fonte largamente dipendente dal più antico Lumelli. Scarse anche le informazioni riferite dall’abate Gerolamo Ghiaini, il principale storico locale del Seicento in contatto con gli ambienti culturali milanesi. L’annalista alessandrino, avendo citato sotto l’anno 1170 il nome di Roffino Bianchi inviato dalla città alla corte di Papa Alessandro III, non manca di sottolineare la nobiltà ed antichità della famiglia Bianchi. Originari di Rovereto, i Bianchi vi avevano una piazza e una torre; e “similmente concorsero alla fabbrica del tempio di santa Maria di Castello, come dalle cappelle, che ivi hanno fabbricate, e che si vedono, chiaramente appare”.
Con questo accenno l’abate Ghilini ci introduce al tema della presenza delle grandi famiglie della città che vantano sulla chiesa diritti di patronato e la cui storia si intreccia continuamente con quella del monumento: e oltre ai Bianchi saranno i Panizzoni, gli Inviziati, i Dal Pozzo. Se nel XII secolo, come vedremo, un Canefri poteva donare i suoi beni per procurarsi meriti per la vita ultraterrena e anche per convogliare la ricchezza di famiglia in un contenitore unico e non frazionabile, nel tardo medioevo e nel rinascimento le donazioni rispondono ad esigenze religiose (la possibilità di manifestare pubblicamente la propria fede ottenendo la sepoltura in terreno consacrato), che si mescolano con il desiderio di ottenere la sanzione del proprio peso sociale e anche con la ricerca di privilegi giuridici (quale il diritto di partecipare all’elezione del preposito).
Complessivamente si può affermare che per gli storici alessandrini del tempo – e per la società di cui essi sono espressione – la chiesa di santa Maria di Castello occupi un posto particolare: le si riconosce antichità e importanza, ma in qualche modo già in relazione a un passato che si è esaurito, mentre per il presente le notizie sono relativamente scarse. In particolare, non vi sono testimonianze dirette del lungo cantiere aperto dal terzo quarto del Quattrocento al 1541, anno della consacrazione della chiesa in una forma vicina a quella che oggi conosciamo.
Uscendo dalla cerchia degli storici alessandrini, ancora nel corso del Seicento è possibile rinvenire le tracce di un interesse non locale per la chiesa di santa Maria di Castello. Nel 1624 vede infatti la luce l’Historia tripartita dell’Ordine Lateranense, opera del canonico novarese Gabriele Pennotto. Il lavoro contiene utili elementi per datare con certezza e ricostruire il momento del passaggio del convento dalla tutela dei Mortariensi a quella dei Lateranensi: “Nel 1474 la Prepositura di s. Maria di Castello di Alessandria, che faceva parte dell’antica Congregazione Mortariense, seguì il destino di quella e fui unita alla nostra da Sisto IV”.
Infine, una seconda traccia è rinvenibile a metà secolo, quando nel 1645 il padre Generale dei Canonici Lateranensi scrive all’abate alessandrino che, “essendovi uno della Congregazione di santa Genoveffa in Francia che vuol pubblicare una storia
dello stesso Ordine, mandi tutto ciò che nei suoi archivi troverà di più particolare”. L’abbazia di sainte Geneviève di Parigi, riformata dal cardinale di La Rochefoucauld a partire dal 1622-24, era la sede dei canonici regolari della Congregazione di Francia. Purtroppo la mancanza della lettera originale ci impedisce di sapere chi fosse lo studioso, quali documenti siano stati trasmessi e quale uso ne abbia fatto: e la notizia vale come conferma dei legami anche sopranazionali esistenti tra le varie congregazioni canonicati, oltre che come prima attestazione dell’esistenza di un archivio abbaziale.
L’erudizione settecentesca
Dopo un lungo silenzio, la stagione del nascente interesse per santa Maria di Castello si può far coincidere con l’ultimo quarto del secolo XVIII e con il fiorire di studi eruditi, diffusisi sul modello dell’opera muratoriana. In questi autori, in cui l’impostazione antiquaria per la ricerca del documento si coniugano con forti sentimenti municipalistici, l’antichità di santa Maria di Castello è posta in relazione con il ruolo avuto da Rovereto nella fondazione della “città nuova” di Alessandria- Cesarea, e con la sua collocazione nelle geografia amministrativa ed ecclesiastica medioevale.
Occorre qui rifarsi ad una tradizione di studio che nasce localmente nell’ambito della curia episcopale e che ha come esponenti l’abate Lorenzo Burgonzio nella prima metà del secolo e il canonico Giuseppe Amato Chenna nella seconda. Il Burgonzio nelle sue Notizie istoriche in onore di Maria Santissima della Salve (1738) aveva presentato la chiesa di santa Maria di Castello come sede di un antichissimo culto mariano collegato alla predicazione di san Siro: “Alla Regina degli Angeli consacrarono gli alessandrini la prima lor chiesa, ove appunto a giorni nostri si vede il monastero e chiesa di santa Maria di Castello”. Attraverso questa preziosa testimonianza traspare la considerazione particolare che la città doveva avere per il tempio di Rovereto, del resto confermata dalla tradizione secondo la quel in quella sede (nella cappella degli Inviziati) dovesse essere ospitata la statua della Madonna della Salve prima del suo trasferimento in Cattedrale, “terminata la fabbrica della chiesa maggiore”.
Erede della carica di Vicario generale, già del Burgonzio, e continuatore dei suoi studi, è Giuseppe Antonio Chenna, il massimo storico della diocesi alessandrina. Nel 1785, con il primo volume della Storia del Vescovato, egli teorizza l’autonomia della diocesi alessandrina da quella di Acqui, offrendo così il prolungamento erudito di una secolare controversia che divise le due diocesi, in particolare nel corso del XIII e del XIV secolo. In contrasto con alcuni studiosi del suo tempo, fra i quali il Malacarne, il Torre e il Moribondo, Chenna riconferma la convinzione di “un’originaria, continuata e non mai interrotta libertà ed indipendenza della chiesa alessandrina”, basandosi proprio sull’antichità di Rovereto e sostenendo semmai la sua appartenenza alla diocesi di Pavia.
Mentre il canonico alessandrino ai impegna nel motivare questa tesi, è al corrente del procedere delle ricerche del teologo torinese Giovanni Battista Moribondo. Questi pubblica per la prima volta il testo integrale della donatio che Ottone Canefri sottoscrive il giorno di Pasqua del 1107 a favore della ecclesia quae videtur edificata infra castrum Roboreti. Il documento è importantissimo per la storia della chiesa: è il più antico tra quelli conservati, ma riveste anche un eccezionale significato per la storia della città, in quanto precede di circa sessant’anni la data in cui si fissa convenzionalmente la fondazione.
Attraverso la pubblicazione di una ingente quantità di documenti, Moribondo si preoccupa di dimostrare, tra l’altro, la dipendenza di Rovereto dalla diocesi di Acqui. Ed è proprio a lui che nell’arco di soli due anni Chenna risponde con il secondo volume della sua opera (1792).
In quella sede la chiesa di santa Maria di Castello è oggetto di un’attenzione specifica, attraverso al redazione di un capitolo che, preso a sé, costituisce di fatto il primo studio monografico sull’istituzione. Si tratta dunque di un contributo prezioso, che conferma l’importanza dell’opera del Chenna per gli studi sulla diocesi alessandrina e che si basa su una approfondita conoscenza di molti archivi religiosi cittadini e sulle dirette esperienze compiuto dall’autore come con visitatore e accompagnatore del vescovo De Rossi lungo una visita pastorale protrattasi per oltre 20 anni.
A Chenna interessa porre in evidenza l’antichità e il prestigio della chiesa: egli traccia perciò un rapido excursus soffermandosi sui momenti più significativi della sua storia. Le sue fonti dichiarate sono Lumelli, Ghilini e Pennotto. Tra gli atti citati, uno del 1242 reca la più antica testimonianza della presenza a Rovereto di un proposito mortariense.
È da notare che lo storico alessandrino non cita mai i documenti dell’archivio di santa Maria di Castello: questa circostanza, insieme al fatto che le notizie riferite siano alquanto schematiche (meglio definibili come la “storia dei possessi del monastero” piuttosto che una vera e propria storia della chiesa), ci porta alla supposizione che il Chenna – come del resto gli storici del settecento – non abbia potuto accedere all’archivio dell’istituzione ecclesiastica. La ragione di ciò è con tutta probabilità da ricercarsi nella gelosa gestione assicurata dai canonici Lateranensi, titolari della chiesa dalla metà del quattrocento fino al 1798.
Nello stesso arco di anni il panorama degli interessi locali per Rovereto e la chiesa di santa Maria si arricchisce con il nome di Giuseppe Ottaviano Bissati. L’avvocato alessandrino, autore delle Memorie politiche, dichiara di aver esaminato alcuni documenti originali relativi alla chiesa: ma le espressioni da lui usate alimentano il dubbio che l’archivio consultato non fosse quello abbaziale. L’opera memorialistica di Bissati viene pubblicata nel 1793, subito dopo il secondo volume del Chenna. In quello stesso anno Bissati muore e si interrompe la pubblicazione del lavoro. Con lui si conclude il fervore settecentesco di studi a carattere municipalistico: ma a questa stagione, dopo la tempesta napoleonica, è ancora possibile ascrivere l’opera di Giuseppe Antonio Bottazzi, nonostante le sue Carte inedite si collochino ad oltre un trentennio di distanza dai lavori citati.
Bottazzi si occupò di santa Maria di Castello con l’intento di dimostrare che l’antico borgo di Rovereto appartenesse alla diocesi di Tortona. Il suo lavoro, condizionato da questo obiettivo, mostra per la moderna critica un’attenzione insufficiente ai problemi paleografici, ma reca anche una serie di informazioni molto utili, specialmente sul piano archeologico: “Vivono nella generazione presente alcuni non pochi, che avranno veduto negli scavi fatti dal cessato governo in distanza di circa centocinquanta metri dalla canonica e tempio di santa Maria le vestigia dei fondamenti dell’antico castello circa nove a dieci metri sotto terra”.
Bottazzi ha però un secondo e grande merito: ponendosi alla ricerca dei documenti a sostegno delle sue tesi egli individua un gruppo di pergamene relative a santa Maria di Castello che si conservano fuori dalla loro sede naturale, e cioè presso l’archivio capitolare di Tortona: “Queste carte, perché genuine, confrontano in analogia cogli istrumenti parimenti genuini, ed autentici dell’archivio de’ canonici Lateranensi di santa Maria di Castello in Alessandria stessa”.
In un’altra pagina il canonico ricorda di aver potuto prendere visione della donatio del 1107: “ ... in un istromento autografo dell’archivio de’ canonici Lateranensi in santa Maria di Rovereto, detta poi anche de Castello, istromento conservatoci dalla diligente cura del signor prevosto Giuseppe Mattia Buffa”.
Con il volume del 1833 Giuseppe Bottazzi è dunque il primo a pubblicare integralmente alcuni dei documenti dell’archivio dei canonici alessandrini, richiamando su di essi l’attenzione degli studiosi. Quattro anni più tardi, in uno dei suoi molteplici studi, egli aggiungerà altri due atti ai primi otto già pubblicati. Ma l’opera dell’erudito tortonese, che già si colloca in piena età della restaurazione, ci introduce al tema della controversa fortuna ottocentesca di santa Maria di Castello.
Ombre e luci dell’ottocento
La separazione del monastero dalla chiesa, conseguente alla soppressione del 1798, è la causa risaputa della grave decadenza del complesso ex-lateranense: si deve osservare che, in modo analogo, si attenua anche l’interesse degli studiosi, col risultato che su santa Maria cala, nei decenni intorno alla metà del secolo, una spessa cortina di silenzio. Così scarse sono le informazioni e le notizie che non ci è quasi
giunta traccia dei pur rilevanti lavori subiti dal monumento negli anni 1842-43, a seguito di una scossa di terremoto avvenuta nel 1820.
Di rilievo resta che tali interventi furono finanziati in una forma inusuale che reca la testimonianza di un interesse personale del re Carlo Alberto per la chiesa alessandrina: fu infatti il sovrano a contribuire alle spese di restauro, a seguito della cessione delle Regie gallerie di Torino di un dipinto appartenente alla parrocchia.
In realtà, dal punto di vista delle conoscenze, i primi cinquant’anni dell’Ottocento coincidono con la ripresa di possesso della chiesa da parte della città, dopo i secoli in cui santa Maria di Castello era stata un corpo a sé, cuore dell’insediamento canonicale più che edificio di culto urbano. Ciò si traduce anche nella possibilità di condurre studi, ma le azioni pur intraprese in questo senso non si concretizzano in pubblicazioni. Il riferimento è da un lato ai contenuti della visita pastorale di monsignor Alessandro d’Angennes (la prima che può estendersi all’intero complesso della chiesa e i cui atti costituiscono un prezioso ritratto dell’edificio e del suo patrimonio), e dall’altro alle ricerche condotte da Giusepe Delle piane, archivista dell’ospedale che raccoglie notizie sulle opere pie e sugli edifici religiosi. Queste informazioni però, non escono dagli archivi in cui presto venero confinate e di fatto non producono alcun utile incremento di conoscenza.
Nel clima culturale dell’età carloalbertina l’unico episodio locale a cui riferirsi è forse il repertorio del De Giorni sui pittori e gli artisti alessandrini che Cristoforo Mantelli pubblica nel 1836. Nel breve saggio, che però l’editore correda di ampie note, trovano rilievo anche alcune parti del patrimonio artistico di santa Maria di castello (il bassorilievo di Federico Dal Pozzo, l’affresco della cappella di sant’Onofrio, il busto dell’Aulari e il dipinto della Samaritana al pozzo) e si forniscono notizie su autori quali i Soleri e il Vermiglio.
Un’occasione certamente mancata per la valorizzazione della chiesa è invece rappresentata dalla ricostruzione della storia della città che Carlo A-Valle, storico, poeta e giornalista, compie a metà del secolo. Nell’Introduzione alla sua opera egli si sofferma sui borghi che diedero vita alla città di Alessandria, e quindi su Rovereto, ma senza mai citare santa Maria di Castello a cui sono invece poche righe più oltre. La considerazione marginale che lo storico “ufficiale” della città dedica al tema è quanto mai sintomatica della caduta di attenzione nei confronti del monumento e della sua vicenda.
Intanto il monastero viene adibito agli usi più diversi e la chiesa sembra farsi periferica anch enella geografia ecclesiastica urbana, come testimonieranno più tardi gli scarni cenni che le riserva la Cronistoria del canonico Berta.
Novità si registrano soltanto nel penultimo decennio del secolo, quando le condizioni del degrado dell’edificio attirano l’attenzione della comunità civile oltre che di quella religiosa: ha inizio così un importante stagione di studi, progetti e lavori che, tra una pausa e l’altra, occupa i quasi cinquant’anni che vanno dal 1886 al 1932 e che vede santa Maria al centro di tre campagne di restauro e oggetto delle ricerche di personaggi quali Leale, Gasparolo, Mina e Guerci. Elemento di continuità all’interno di questo periodo è la figura di Francesco Gasparolo che emerge in tutta la sua grandezza non solo per la vastità e la metodicità delle ricerche, ma soprattutto per la modernità dell’ispirazione del concetto di tutela del patrimonio storico-artistico.
Studi e restauri di fine secolo
A questa ripresa di interesse e di studi si può fissare una data d’inizio: è il 1885, anno della creazione della Commissione municipale di storia, d’arte e d’archeologia, un’équipe di appassionati che sa farsi portavoce di una ricerca storica modernamente intesa. Questa fase, che porterà nel 1892 alla fondazione della “Rivista di storia, arte e archeologia” e nel 1896 a quella della Società di storia, è già stata indagata a fondo per quanto concerne gli aspetti di tutela del patrimonio storico-artistico Essa comunque merita di essere almeno accennata in questa sede perché è proprio in questo periodo che la cultura locale sa collegarsi ad ambiti di studio e ricerca sovraprovinciali, riuscendo a produrre risultati aggiornati e criticamente validi. Avviene infatti che due giovani studiosi, il tedesco Graef e l’alessandrino Gasparolo, quasi in contemporanea e senza saper nulla l’uno dell’altro, ribaltino le tradizionali teorie sulla fondazione di Alessandria richiamando nuova attenzione sul ruolo avuto dai borghi originari: Rovereto, Gamondio, Marengo e Bergoglio. Il Graef, che si colloca nell’ambito della scuola dei Monumenta Germaniae Historica, scrive della storia di Alessandria servendosi delle conoscenze disponibili nelle ricche biblioteche tedesche. Egli dedica diverse pagine a Rovereto, soffermandosi tra l’altro sulla appartenenza dei suoi signori alla dinastia otbertina o obertenga. E, all’interno di queste considerazioni, esamina proprio la donatio Canefri, di cui è il primo a discuterne criticamente l’autenticità.
È in questo contesto che si collocano le ricerche di Giulio Leale, a cui si deve un ruolo importante nella riscoperta tardo-ottocentesca della chiesa di santa Maria di Castello e la consapevolezza che l’intervento di cui il monumento aveva bisogno si dovesse accompagnare con approfondimenti di tipo storico. Leale, mazziniano amico di Tardelli e Dossena, ingegnere idraulico e architetto che alla competenza tecnica univa la passione civile, fu amministratore della provincia e del comune. Consigliere comunale dal 1866 al 1889, sedette due volte in giunta, collaborò a periodici quali “L’avvisatore” e “La lega”, e fu tra i fondatori della Società di storia.
Il suo nome resta legato alla relazione che predispose “per compito avuto a richiesta del Ministero della Pubblica istruzione e della fabbriceria di santa Maria di Castello”. Il documento, consegnato il 13 gennaio 1887 al prefetto di Alessandria e pubblicato nello stesso anno, è pervenuto a noi come primo vero studio monografico sulla chiesa. Gli interessi di Leale sono storico-artistici, ma la sua attenzione è di tipo operativo. Egli svolge alcune prove di scavo e pratica dei saggi (che danno per la prima volta, anche se in modo incompleto, le prove dell’antichità del monumento); rinviene le tracce di fondazioni precedenti e scopre le colonne originali del chiostro.
Tutto ciò porta all’affidamento di un incarico di restauro da parte della Prefettura che però sarà destinato a rimanere lettera morta. Dal 1876 Leale fa parte della Commissione consultiva conservatrice per la provincia di Alessandria e forse proprio nell’ambito di questo incarico e con la finalità di ottenere il riconoscimento della chiesa come monumento nazionale, è il primo a mettere in risalto l’interesse storico-artistico di santa Maria di Castello, “importantissima e antica più che ogni altra chiesa di Alessandria”. Le fonti su cui l’autore lavora sono Chenna, Bottazzi, Burgonzio e Moribondo. Può anche consultare l’archivio parrocchiale, di cui cita “il vecchio catalogo” contenente 786 atti. La monografia è importante, per le conclusioni a cui l’ingegnere perviene (ad esempio in tema di periodizzazione dell’edificio, con la proposta di riconoscere tre fasi costruttive, relative ai secoli XI, XIII, XV-XVI), e per il collegamento con la campagna di lavori eseguiti nel biennio 1886-87, i cui risultati gli consentono di disporre di informazioni inedite.
Con le stesso titolo della Relazione, poi, Leale pubblica una serie di articoli su un periodico locale mediante i quali integra i contenuti della propria ricerca e la indirizza, con risultati di buon interesse, sulla fisionomia, la toponomastica, i ritrovamenti archeologici dell’antico insediamento di Rovereto.
Con Leale che aspira ad essere il terminale locale dei nascenti organi di tutela, ha inizio anche una fase in cui interessi particolari di singoli personaggi si intrecciano, non sempre in modo positivo, con gli interventi istituzionali rivolti alla conservazione del monumento. Di fatto, comunque, occorre riconoscere che egli riesce a richiamare l’attenzione degli uffici regionali, come dimostra la breve scheda dedicata alla chiesa alessandrina che viene inserita proprio in questi anni nel bilancio che Alfredo d’Andrade traccia dell’attività del proprio ufficio: si tratta per il momento di una segnalazione, ma prelude a futuri interventi. Anche localmente il lavoro di Leale trova un riscontro positivo: a distanza di pochi mesi dalla pubblicazione, lo studio viene recensito da Giovanni Roggero sulle pagine dell’Avvisatore della provincia, unitamente ai lavori del Graef e di Gasparolo sulle antichità alessandrine. Il modo di procedere dello studioso è paragonato a quello “dei naturalisti e dei geologi che dai caratteri delle conchiglie e dei fossili in generale indovinano la cronologia della varie formazioni dei terreni. Interessante anche il richiamo ad una prosecuzione di studi: “Sarebbe a desiderarsi che gli atti relativi alla chiesa di santa Maria di Castello ... esaminati dall’ing. Leale coll’intento speciale di un esame architettonico, venissero esaminati anche sotto l’aspetto puramente storico”.
Francesco Gasparolo e la scoperta dell’archivio canonicale
L’augurio di Roggero è destinata non cadere nel vuoto: si apre, infatti, con l’ultimo decennio del secolo la fase del prevalente interesse di Francesco Gasparolo per la chiesa e il suo archivio. Santa Maria di castello esce definitivamente dall’oscurità e trova il suo storico ufficiale in una personalità che unisce alla competenza nelle discipline paleografiche un crescente interesse per le problematiche di tutela e conservazione.
La figura di Gasparolo ci è oggi abbastanza nota, anche se gli studi disponibili si limitano al profilo bio-bibliografico. Ordinato sacerdote nel 1881, Gasparolo compie gli studi a Torino e poi a Roma sotto la guida dell’alessandrino cardinale Bilio e del Vicario pontificio cardinal Pacchi. Nel 1887 si diploma presso la scuola di Paleografia e Diplomatica vaticana (e pubblica le già ricordate Dissertazioni storico- critiche sopra Alessandria). Nel 1888 dà alle stampe il Liber Crucis (primo volume dei Monumanta Alexandrina che proseguiranno otto anni dopo proprio con l’Archivio di santa Maria di Castello). Nel 1892 è tra i fondatori della “Rivista di Storia dell’arte e archeologia”, di cui diviene primo direttore. Da quel momento, e per qualche anno, le vicende biografiche di Gasparolo e gli studi su santa Maria di Castello si intrecciano strettamente.
Il giovane prete alessandrino, che ha avuto il privilegio di studiare a Roma, affronta questo tema potendo contare sulla formazione ricevuta presso una sede di prestigio (la Pontificia scuola vaticana di Paleografia e Diplomatica, fondata nel 1884 da Leone XIII per fare dell’Archivio segreto vaticano un centro internazionale di ricerche storiche), e avendo avuto come maestro una personalità del calibro di Isidoro Carini, direttore della scuola e studioso di fama il cui nome è legato alla diffusione in Italia della moderna scienza paleografica.
L’edizione dei documenti dell’Archivio di santa Maria di Castello è il primo lavoro impegnativo che Gasparolo affronta proprio sulle pagine della neonata Rivista alessandrina e che compare a puntate a partire dallo stesso 1892. Mentre è assorbito in quest’opera Gasparolo lavora in Vaticano e insegna alla Pontificia università di sant’Apollinare a Roma (incarico che lascerà nel 1894). Testimonianza di una lunga bipolarità tra la capitale e la città d’origine è il fatto che proprio il volume che raccoglie i documenti di santa Maria di Castello (e che sarà dato alle stampe nel 1896) esca presso una tipografia romana a spese del Municipio alessandrino.
Nel 1897 nel Seminario di Alessandria vi sono tensioni che contrappongono l’autorità religiosa e gli studenti: Gasparolo, che in seminario insegna, non esita a schierarsi e ha dei dissapori con l’ordinario diocesano. Forse a sottrarlo a questo clima arriva a Gasparolo la nomina a titolare della cattedra di Diritto romano all’Apollinare: ma nuovamente, e questa volta in modo definitivo, Gasparolo rinuncia agli studi vaticani e decide di tornare ad Alessandria, dove per oltre un trentennio svolgerà attività di ricercatore d’archivio, di studioso, di divulgatore culturale.
A questo intellettuale si deve dunque la moderna “scoperta” dell’archivio canonicale. Il ricorso a questo termine non sembri esagerato: infatti, anche se alcuni dei documenti, come già si è visto, erano noti in precedenza ad altri studiosi, al canonico alessandrino vanno riconosciuti la consapevolezza della rilevanza di tale fondo e il merito della redazione della prima – ed unica – edizione critica degli atti in esso contenuti.
Con la pubblicazione dell’Archivio di santa Maria di Castello Gasparolo stimola una intensa stagione di studi e di inedito interesse per l’antica chiesa, in un’azione che vedrà al suo fianco altri protagonisti: ma, prima di affrontare questo tema, è opportuno soffermarsi sulle peculiarità di questa raccolta archivistica e sui problemi ad essa connessi.
L’Archivio può definirsi come un classico archivio di fondazione religiosa, una prova ulteriore dell’egemonia della tradizione documentaria ecclesiastica nel periodo anteriore al XII secolo. Le ragioni alla base di questo fenomeno (e cioè la prevalenza di documenti religiosi contro una sostanziale assenza di atti privati e civili) sono note ala critica documentaria e attengono alle modalità di trasmissione e conservazione stessa dei documenti. Di solito i laici, cedendo un patrimonio a una chiesa, consegnavano anche le carte attestanti il titolo di proprietà (monimina). E ciò è avvenuto puntualmente anche nel caso di cui ci stiamo occupando: a partire dalla donazione di Oddo Canefri tutti gli atti più antichi conservatisi recano la prova giuridica dei diritti reali di cui furono titolari i religiosi officianti la chiesa.
Questo in particolare è vero per una splendida serie di atti – esattamente 106 – datati dal 1107 al 1500, che costituiscono la parte più antica della raccolta. Si tratta di un piccolo fondo prevalentemente pergamenaceo, integrato da copie e minute cartacee, che rappresenta quanto si è salvato dalle dispersioni operate a partire dall’Ottocento. Al fondo antico sono da aggiungere i classici libri relativi alla cura d’anime (libri dei battesimi, dei matrimoni, delle cresime, dei morti), conservati a partire dall’età tridentina in poi, nonché vario materiale risalente a Sette e Ottocento: quest’ultimo necessita di un accurato riordino e in più di un caso si trova in condizioni di conservazione molto precarie.
I monimina di santa Maria di Castello confermano la tesi per cui nell’alto medioevo le sedi ecclesiastiche portatrici di documenti si possono ricondurre sostanzialmente a tre: le chiese cattedrali o canonicati; i capitoli cattedrali; i monasteri. Che santa Maria di Castello fosse una chiesa canonicale ci è noto e documentato a partire dalla metà del XIII secolo, ma non si conosce la data dell’insediamento dei primi canonici. Sappiamo però che i Mortariensi (Canonici dell’ordine di Santa Croce di Mortara), che già la officiavano nel 1242, erano stati fondati intorno al 1082 da un ricco ecclesiastico del centro lombardo e come altre congregazioni regolari riformate avevano conosciuto una grande espansione di patrimonio e di redditi nel corso del XII secolo, spesso a seguito di un solido legame con società cittadine in sviluppo.
La “questione Canefri”
Per un’età ancora precedente a quella dei Canonici l’Archivio conserva una traccia che ci introduce ad un tema avvincente, quello relativo alla famiglia alessandrina dei Canefri. Chi è infatti Oddo Canefri, autore della donazione del 1107 in favore della chiesa di santa Maria di Castello? Nel documento figura come figlio del fu conte Oberto. È dunque un nobile, appartenente ad un gruppo comitale. Il titolo di “conte”, che Oddio sembra non possedere più, potrebbe riferirsi a una funzione giurisdizionale. Già Graef aveva avanzato l’ipotesi che la famiglia Canefri, presente a Rovereto all’inizio del XII secolo, appartenesse a un ramo della dinastia Obertenga.
Dai documenti di area alessandrina – raccolti dal Gasparolo nel suo Cartario alessandrino – seno desumibili diverse indicazioni aggiuntive di cui si è servito Francesco Guasco di Bisio per la redazione delle Tavole genealogiche, opera ancora
utile che testimonia la vastità di una ricerca condotta sulla nobiltà locale, anche se oggi considerata dalla critica troppo generosa nel riconoscere a molte famiglie subalpine discendenze marchionali o comitali. Dalla genealogia dei Canefri elaborata dal Guasco e da questo quadro d’insieme, talvolta da assumersi con cautela, emerge il ritratto di una compagine familiare in cui i componenti maschili:
a. conservano nell’arco di oltre sessant’anni il titolo di comes; b. si professano tutti di diritto longobardo; c. si caratterizzano per una politica matrimoniale tesa a costruire e consolidare
rapporti in ambito signorile (le mogli sono, in due casi su tre, figlie di marchesi). A partire da questi elementi si può dunque ipotizzare una linea genealogica che definisce i rapporti interni (e l’importanza politica) della famiglia Canefri, presente a Rovereto e a Gamondio lungo l’intero arco del XI secolo. A tale proposito occorre ricordare che, a partire dal Graef, la critica storica ha avanzato alcuni dubbio sull’autenticità di alcune parti di questa documentazione. In particolare Giuseppe Pochettino, uno studioso di Castellazzo Bormida che ai primi del Novecento si occupò di ricostruire la storia di Gamondio, nel giudicare falsa una donazione del 1062 in favore della famiglia Canefri, si spinge a tracciare l’identikit del falsario e propone il nome del conte Cesare Nicola Canefri, nobile letterato alessandrino vissuto nel Settecento e passato alla storia della paleografia proprio per la sua attività illecita. Personaggio dalla biografia tumultuosa, Canefri nasce ad Alessandria il 15 aprile 1710. Avviato agli studi sacerdotali si dimostra presto ottimo paleografo, appassionato ricercatore di memorie patrie, frequentatore di archivi pubblici e privati. Dopo aver acquisito una vasta e scelta clientela interessata ad ottenere per mezzo delle sue ricerche genealogiche il riconoscimento di benefici e diritti, il Canefri stesso, “vantando le tradizioni familiari”, presenta domanda per essere ammesso tra i decurioni della città e nel 1738 viene investito della carica. Sposata la figlia del conte milanese Origo della Croce, Canefri chiede il riconoscimento della nobiltà della propria famiglia “affinché la moglie potesse godere delle prerogative a trattamenti dovuti a veri nobili”. La richiesta conosce l’opposizione di alcune famiglie alessandrine che contestano la veridicità dei documenti prodotti dal Canefri. Nel corso della lite si acquisiscono le prove dell’accusa di alterazione e falsificazione degli atti esibiti e, sebbene il processo si concluda con un gesto di clemenza nei confronti dell’accusato, rimane agli atti un Regio biglietto inviato al Prefetto di Alessandria in cui il Canefri è qualificato come “impostore e falsario” (1741). Sei anni dopo, comunque, Carlo Emanuele III gli concede il titolo di conte e Canefri può intraprendere la carriera politica divenendo consigliere della città e capitano della fiera. Prosegue intanto le sue ricerche storico-genealogiche giungendo alla stampa dell’opera La nobiltà di Alessandria rappresentata con gli alberi genealogico delle sue nobili famiglie per ordine alfabetico distribuite (Torino 1760). Ma proprio nel momento in cui il conte recupera il favore del sovrano, che lo propone per un incarico nei Regi archivi, tornano alla luce i falsi operati nel passato: in breve gli sono revocati i sussidi concessi e viene disdetta la continuazione della stampa del lavoro. Cesare Canefri muore il 6 dicembre 1778. Se questo dunque è il personaggio che Pochettino sospettò come falsario emerge con tutta evidenza l’interesse storico-critico della documentazione relativa alla famiglia Canefri, un patrimonio di documenti che deve essere considerato con la massima cautela e che certamente richiede un’analisi più approfondita.
A tale considerazione si deve aggiungere il fatto che anche i documenti più antichi dell’archivio del capitolo della Cattedrale di Alessandria riguardano personaggi o beni di proprietà dei Canefri. Ciò può rappresentare una conferma dell’importanza di questo gruppo nella storia alessandrina delle origini: il fondo di documenti conservato in Cattedrale potrebbe costituire infatti la collezione delle prove giuridiche dei possessi e dei titoli di proprietà di questa compagine familiare. Ma come escludere che ci si trovi di fronte invece e un residuo dell’attività di falsificazione operata dal conte Cesare? E a favore di questa ipotesi stanno, si noti bene, le molte copie di età settecentesca che sostituiscono gli originali proprio nell’Archivio capitolare. Esse sono tutte autenticate dallo stesso notaio, l’alessandrino Stefano Barberi, in date vicine a quell’anno 1740 in cui si svolge il processo per falsificazione a carico del Canefri.
Non occorre aggiungere altro per dimostrare che dall’Archivio dei canonici di santa Maria di Castello ha origine un problema di primario rilievo per la storia locale, che coinvolge un secondo fondo, quello del Capitolo, e che si auspica possa trovare in futuro la necessaria e corretta attenzione. Ma a questo punto è bene tornare all’edizione di Gasparolo.
La pubblicazione dell’archivio di santa Maria di Castello
Il volume sull’archivio di santa Maria di Castello rimane a distanza di tempo un’opera fondamentale per la conoscenza della chiesa. Ne aveva chiara coscienza lo stesso autore che dichiarava: “Ho fiducia di aver reso un servigio al mio paese, di cui ne sentirà i benefici diretti nei lavori storici che in avvenire lo illustreranno”.
Nelle intenzioni del Gasparolo la raccolta di documenti doveva essere un momento preliminare di un progetto più vasto: “La materia sarebbe tutt’altro mancata per formare un lavoro abbastanza largo nella storia di detta chiesa in relazione alla storia civile di Alessandria. Ma diversi motivi – non ultimo dei quali fu un motivo finanziario – m’impedirono di mandar ad esecuzione il desiderio ... Forse coll’andar del tempo si potrà soddisfare al voto”.
Il volume fornisce il testo completo di 197 atti. Essi si possono sostanzialmente ricondurre a tre gruppi. In primo luogo figurano le trascrizioni integrali dei 106 documenti (dal 1107 al 1500) che costituiscono la parte più antica dell’archivio. In secondo luogo compare un considerevole insieme di regesti: si tratta della riproduzione integrale di un elenco di 836 documenti, non redatto da Gasparolo – che però ebbe evidentemente la possibilità di esaminarlo, mentre oggi non è più rinvenibile nell’archivio parrocchiale. Questo indice dei documenti esistenti nell’archivio di santa Maria di Castello di Alessandria viene così descritto dal canonico: “Quest’importantissimo indice, redatto sul principio del nostro secolo, si trova in un libro legato in cartone e coperto di cuoio rosso. Contiene pag. 171 numerate, senza contare i fogli in bianco, e misura cm. 36 x 23. È in uno stato discreto di conservazione, e la scrittura generalmente bella, sebbene vi siano aggiunte posteriori. Doveva aprire la serie di libri, che forse avrebbero contenuti gli atti per intero, poiché sul primo foglio sta scritto n° 1”.
In una nota Gasparolo precisa che l’elenco comprende sia i documenti da lui editi, sia altri da lui conosciuti e non presenti nell’Indice. Dell’organizzazione originale del documento ha comunque conservato le sezioni. Infine esiste un terzo gruppo di 91 atti, di cui è fornita la trascrizione integrale ma non la collocazione archivistica. Essi non fanno parte del fondo attualmente conservato in parrocchia ed è perciò possibile ipotizzare che si tratti di documenti che l’autore rinvenne nel corso delle sue ricerche presso altri archivi, primi tra tutti quello notarile alessandrino e quello storico del comune di Alessandria. Ma la scarsità di informazioni in nostro possesso sul modo di lavorare di Gasparolo non ci permette di rispondere a questa domanda e rende arduo l’impegno di chi voglia riprendere l’opera del canonico dal punto in cui egli la lasciò.
Il volume è completato da due notevoli Indici (dei luoghi e dei nomi di persona), la cui importanza era evidente allo stesso autore, che così vi accennò: “Ho creduto bene di munirlo di due indici copiosi e minuti, i quali – starei per dire – tengono luogo di storia”.
I gruppi di atti qui citati esauriscono la documentazione edita circa la chiesa di santa Maria di Castello. Resta da osservare che a seguito della soppressione dei Lateranensi l’archivio conobbe una gravissima dispersione, che è oggi alla base della carenza di notizie per interi periodi o singoli momenti significativi nella storia della chiesa e del convento.
Per il ricercatore sarebbe importante recuperare in primo luogo i documenti di cui esiste il solo regesto nel citato Indice ottocentesco (e conoscere il nome di chi lo dovette redigere e per quale scopo fu predisposto). È da ricordare inoltre che lo stesso elenco rinvia ad altri gruppi di documentazione oggi perduti, tra cui si citano:
a. n. 60 – (1335) – Scritture diverse attinenti ala chiesa e masserie di santa Maria di Castello.
b. n. CLVIII, nota p. 162 – Libro delle memorie di santa Maria di Castello che principia il 1545.
c. N. 479 – Inventario delle scritture di santa Maria di Castello esistenti nell’archivio di santa Maria della Pace in Roma.
Le ricerche finora condotte presso l’archivio dei Lateranensi (che si è trasferito dalla chiesa romana di santa Maria della Pace a quella di san Pietro in Vincoli) non hanno condotto a risultati importanti. Analoga considerazione si può fare per l’archivio dei canonici di santa Croce di Mortara (noto al Bissati) e per i verbali dei capitoli generali della congregazione Lateranense conservati a Ravenna.
Indubbiamente molta documentazione citata in questi elenchi si trova, almeno in copia, nelle raccolte dei notai alessandrini, ma la mole della ricerca da compiere ha fino ad oggi scoraggiato indagini sistematiche.
Da Lorenzo Mina a Venanzio Guerci
Con la pubblicazione dell’Archivio Gasparolo inaugura una personale attenzione verso la chiesa di santa Maria di Castello che si protrarrà fino agli anni trenta, passando attraverso una serie di brevi articoli sotto il titolo di Memorie e notizie e pubblicati sulla “Rivista di storia”, e giungendo all’edizione del Cartario alessandrino e alla collaborazione per la raccolta delle iscrizioni alessandrine.
In questo lungo percorso di studi ci sembra anche possibile scorgere un andamento non tutto omogeneo e forse riconducibile a due diverse stagioni. C’è un Gasparolo più giovane con prevalenti interessi di storico, di cui si è sottolineata la formazione aggiornata e al quale è giusto riconoscere il merito di aver concepito un programma di ricerca archivistica modernamente inteso, non ancorato ala sola città di Alessandria ma esteso ai fondi di Milano, Torino e Genova, e ispirato al principio che occorresse partire dalle modalità di formazione dei documenti, assumendo come base le vicende degli enti produttori dei documenti stessi.
Ma c’è anche un secondo Gasparolo, quello degli ultimi anni, che sembra maggiormente interessato al ruolo che gli deriva dall’incarico di ispettore onorario ai monumenti e che si espone a critiche proprio in relazione alla sua prima passione storico-documentaria e che il mondo scientifico impietosamente non gli risparmia. Questi aspetti contraddittori non devono però impedirci di scorgere l’importanza dello studioso. Piuttosto, è curioso ritrovare una parallela duplicità di andamenti e di destini nella storia stessa dell’interesse per la chiesa di Rovereto. Si apre infatti un periodo in cui all’attenzione degli storici si affianca la presenza sempre più insistita di chi accosta la chiesa nel tentativo di farne uno strumento per l’affermazione di personalismi o per il conseguimento di gratificazioni che poco o nulla hanno a che fare con la ricerca, lo studio, la tutela.
Come esempio del primo tipo di interesse è possibile citare le poche ma precise pagine che nel 1899 Giovanni Jachino dedica a santa Maria di Castello nell’ambito della sua Storiografia alessandrina. Come caso emblematico del secondo tipo di approccio va ricordato il saggio di Lorenzo Mina. Ma su Mina è opportuno soffermarsi sia per l’interesse del personaggio che per il carattere monografico del suo lavoro su santa Maria di Castello.
Ingegnere e architetto, ma anche autore di commedie e monologhi, conferenziere e studioso d’arte, designer ante litteram e polemista, egli fu prima di tutto un uomo di scuola: la sua esistenza originale ed inquieta trascorse tra le scuole serali di Torino, l’università di Genova, gli istituti tecnici di Alessandria, Casale Monferrato, Asti, Brescia e Cuneo. Laureatosi nel 1900, diede alle stampe nell’arco di un solo triennio (1903-1905) studi artistici di un qualche rilievo ma di incostante affidabilità. Fu per brevissimo tempo Direttore onorario del Museo e della Pinacoteca di Alessandria.
La monografia su santa Maria di Castello, che l’autore steso limita al “profilo artistico costruttivo”, è il primo saggio dedicato ad una sistematica descrizione del patrimonio storico-artistico della chiesa. “Ordinando i disegni, eseguendo rilievi e fotografie dell’edifizio e di quanto si conserva d’importante e di artistico in esso”, Mina non solo raccoglie materiali preparatori per “completare uno studio utilissimo e alla storia e all’arte”, ma ci consegna un ritratto del monumento all’inizio del secolo.
Conosce e cita tutte le fonti a stampa disponibili al tempo in cui scrive: inserisce anche la citazione integrale della scheda di d’Andrade. Quanto è di polemico nel suo carattere lo induce a contestare alcune affermazioni o decisioni del Leale: ad esempio, la qualifica di “basilica”, il metodo seguito negli scavi, la periodizzazione da questi proposta. Egli non rinuncia alla tentazione di esibirsi in alcune proposte di restauro, mescolando giuste considerazioni, ad esempio sulla necessità di un generale consolidamento delle strutture, a scelte molto discutibili, quali la sostituzione della trifora in facciata, la demolizione delle cappelle laterali e della nicchia dietro l’altar maggiore. Sottolinea l’importanza del chiostro e, oltre a richiedere la scopertura di pilastri e capitelli, propone di localizzarvi un museo. Suggerisce infine la demolizione di alcune costruzioni che deturpano la zona absidale. Per questi interventi ipotizza una somma almeno doppia delle 39.000 lire a suo tempo previste dal Leale.
Ma i progetti di Mina, per santa Maria di Castello come per il resto, rimangono puramente teorici, operazioni gratuite di un “cavaliere ideale”. Nel 1916, senza troppo nascondere le cause della sua frustrazione, entra in polemica con il Bertea, progettista al quale nel frattempo è stato affidato il restauro, esprimendo il famoso giudizio sul progetto: “bello per una chiesa nuova di stile antico”. Nello stesso anno Mina avanza l’idea di costruire una cartolinoteca e fototeca sociale, destinate a raccogliere le immagini dei principali monumenti della provincia (raccolta effettivamente avviata nel 1931 con la donazione di oltre 4000 tra cartoline e fotografie).
Ma è ormai il tempo in cui “il problema di santa Maria di Castello” diventa oggetto di tutela istituzionale. La Vinari, nel suo fondamentale saggio sui restauri della chiesa, ha già messo in luce come a partire dal 1906 si trovino le tracce di un consistente interessamento da parte degli Uffici regionali. Al 1913 risale la redazione del progetto generale di restauro su perizia di Cesare Bertea, che sarà poi di fatto la guida per gli interventi realizzati dall’ingegner Venanzio Guerci nel decennio 1923-32. Sono vicende ricostruite da altri. In queste pagine varrà invece la pena di evidenziare il silenzio di studi che per quasi 25 anni accompagna localmente la redazione e l’esecuzione del progetto. Un silenzio rotto soltanto dalle lettere con cui il Gasparolo , dal 1917 al 1920, relaziona sull’incarico avuto dalla Soprintendenza circa le provvidenze da prendersi per la chiesa requisita a scopo militare dopo lo scoppio del primo conflitto mondiale. Ed è in questi anni che il canonico si propone sempre più insistentemente come tramite per la sorveglianza da parte degli istituti di tutela. In particolare, nella prefazione ad uno scritto sulle Confraternite alessandrine apparso nel 1921, il canonico nella sua veste di Ispettore onorario, esprime con chiarezza e con la sua consueta passione il concetto secondo il quale ogni giudizio di valore sui beni dev’essere legato allo loro importanza storica e non solo artistica: “L’arte e la storia hanno i propri diritti, avanti ai quali devono cedere gli interessi materiali; molto più quando sono affatto problematici, e oserei dire inesistenti ... A me pare che sia giunto il tempo in cui il governo, che deve essere custode del patrimonio non solo artistico ma anche storico di ogni città, debba per Alessandria, povera cenerentola, pronunciare una energica parola: basta”.
Si giunge così allo studio dell’ingegnere alessandrino Venanzio Guerci, pubblicato nel 1927. Questo lavoro, che costituisce la terza monografia dedicata alla chiesa in meno di trent’anni, non è altro che la “relazione storica” predisposta a corredo dei lavori del cantiere di restauro e a cui Guerci partecipa “in veste di collaboratore del Sovrintendente ai monumenti, Bertea, e direttore delle opere di consolidamento e restauro della chiesa negli anni 1924 e 1925”. Siamo qui di fronte all’esponente di una famiglia che dal finire del secolo XIX è impegnata a trasformarsi in esecutrice materiale di opere pubbliche in “interprete del rinnovamento urbanistico alessandrino”. Dal punto di vista storico Guerci si avvale degli studi di Francesco Pezza, studioso del movimento mortariense; sotto il profilo artistico e architettonico il suo lavoro si distingue per la puntuale descrizione dei problemi della chiesa e per l’importanza di alcune notizie (le cappelle, l’affresco ritrovato nel chiostro, gli usi recenti di chiesa e chiostro). Un’interessante tavola cronologica ricostruisce gli interventi che hanno segnato l’edificio.
Il secondo novecento
Con la morte di Gasparolo e con la fine dei lavori diretti da Guerci si chiude la stagione della grande fortuna di santa Maria di Castello. In fondo la chiesa ha avuto il suo storico e ha conosciuto un importante restauro: per una città poco lungimirante come Alessandria ce n’è abbastanza per considerare positivamente chiuso il “caso” santa Maria di Castello. E anche sul piano degli studi – come dimostra emblematicamente la totale assenza di attenzione da parte di redattori ad autori della rivista “Alexandria” durante gli anni trenta – la tensione si allenta. Un ultimo segnale di attenzione è forse il breve paragrafo che l’Enciclopedia Treccani dedica alla chiesa nel 1929: la scheda, succinta ma informata, è redatta da Augusto Telluccini della Regia Soprintendenza all’Arte medievale e moderna di Torino.
Per quanto concerne le problematiche artistiche occorre giungere agli anni sessanta per trovare in bibliografia alcuni riferimenti alla chiesa in opere importanti ma di carattere generale, quali sono i lavori di Luigi Mallè e di Angiola Maria Romanici. Un episodio a parte è costituito dalla mostra dedicata ai grandi quadri settecenteschi rappresentanti scene della vita della Vergine svoltasi nel 1968, anno in cui ha luogo il convegno di studi per celebrare l’ottavo centenario di fondazione della città.
Si arriva così alla campagna di scavi degli anni 1970-1973 (e che porta alla luce la zona archeologica con i resti di tre edifici precedenti, la cui antichità è stimata dal VI al XII secolo): l’intervento effettuato con modalità non esenti da critiche, può contare soltanto su una breve comunicazione scritta da parte dell’architetto Santino Langè, direttore di quei lavori. E così, di fatto, avviene che scoperte rilevanti per la storia della chiesa e, forse, della città, rimangano per oltre vent’anni senza essere studiate o senza che i risultati di questi studi vengano divulgati.
Bisogna giungere alla metà degli ani ottanta per registrare novità che finalmente danno il senso di un’inversione di tendenza. Mentre si rimette in moto la macchina dei finanziamenti (la cui carenza aveva provocato la sospensione dei lavori del 1973), la Provincia di Alessandria affida un incarico di studio all’architetto Maria Grazia Vinari di Torino e ciò si traduce anche in un saggio che rappresenta quanto di più
preciso si sia scritto sui problemi dell’edificio e sui restauri che lo hanno interessato negli ultimi duecento anni. Fondamentale per la comprensione di queste dinamiche si rivela la consultazione della parte di Archivio parrocchiale che non era stato pubblicato dal Gasparolo.
Il saggio della Vinari viene presentato in occasione di un importante convegno studi organizzato in Alessandria nell’ottobre 1988 dalla Società piemontese di archeologia e belle arti. Si tratta di un’occasione per fare il punto sulle ricerche in corso sull’alessandrino e tra le trentacinque relazioni presentate occorre ricordare il bellissimo intervento che Guido Gentile dedica al gruppo plastico del sepolcro. Il convegno inoltre consente di dare il giusto rilievo alla continuità di attenzione che gli istituti di tutela riservano alla realtà alessandrina nonostante le difficoltà dovute alla cronica scarsità di risorse umane e finanziarie.
Le recenti emergenze statiche del 1991 e l’alluvione del 1994 portano infine ad una ripresa anche sul piano dei lavori: dopo le indagini svolte dall’ingegner Giuseppe Pistone e dalla stessa Vinari, i due tecnici sono incaricati della redazione del progetto di consolidamento e recupero, il cui primo lotto – interamente finanziato – ha preso il via nel 1996.
Rimane da sottolineare che questo intervento si accompagna per la prima volta ad una riflessione di tipo urbanistico che coinvolge il contesto in cui il complesso di santa Maria di Castello si pone. Almeno fino a questo momento tale analisi non è stata all’altezza dei risultati che l’indagine storico-artistica ha invece comunque conseguito. È dunque auspicabile una profonda maturazione anche sul piano del dibattito relativo al contesto urbano in cui porre eventuali interventi.
La ritrovata attenzione della città nei confronti di quello che molti sentono come un monumento simbolo si è infine tradotta nell’intervento di un gruppo di privati che ha reso disponibili risorse finanziarie per il secondo lotto di lavori, aggiuntive rispetto a quelle pubbliche.
Per quanto riguarda le problematiche storico-istituzionali la chiesa continua a mancare di un0’analisi compiuta, in grado di elaborare le fonti pubblicate dal Gasparolo e soprattutto di inserire correttamente le vicende dell’insediamento religioso in un quadro più vasto. Come ha osservato Giuseppe Sergi sul piano generale, vi sono problemi che hanno impegnato gli studiosi della fine dell’ottocento e dei primi decenni del novecento, e che ins seguito sono rimasti insoluti per decenni, fino ad una recente ripresa di ricerche aggiornate.
Sono tre i “nodi” della storia di santa Maria di Castello che rappresentano altrettanti punti di collegamento con la grande storia delle istituzioni medievali: l’insediamento di Rovereto, il significato originario del castrum e della ecclesia; il ruolo che in essi ha avuto la famiglia Canefri. Messe a fuoco dagli storici a partire dalla metà del settecento, le tre questioni non sono ancora state esaminate alla luce delle categorie proprie della medievalistica contemporanea. Si può dire infatti che l’alessandrino sia stato soltanto lambito dalle indagini territoriali avviate negli ultimi vent’anni dalla ricerca accademica, mentre negli ultimi studi diretti risalgono ormai alla fine degli anni sessanta.
Può quindi essere utile richiamare in sintesi le domande giuste che la ricerca storica ha messo a punto in questi anni, ma che non ha applicato alla realtà alessandrina. In primo luogo, Rovereto. Dietro il tema della sua antichità (che ha concentrato ed esaurito l’attenzione dell’erudizione sette-ottocentesca) c’è quello del suo rapporto con la geografia amministrativa dei secoli dal IX all’XI. Curtis regia, attestata almeno a partire dall’VIII secolo, Rovereto con il suo castrum va indagato alla luce delle teorie sull’incastellamento, nelle relazioni con la vita sociale e la struttura insediativi, e soprattutto come eventuale espressione di un progetto di affermazione signorile.
In secondo luogo, santa Maria di Castello. Siamo di fronte ad una chiesa plebana, come ipotizzato da Geo Pistarino nel saggio del 1978, che resta quanto di più acuto si è scritto sulle origini e la formazione dell’insediamento, oppure santa Maria di Castello si può individuare come chiesa di famiglia, oggetto di una iniziativa aristocratica? Questo infatti potrebbe significare la fondazione attribuita nei documenti ad alcuni boni homines. Ed è noto che la costruzione di castelli e, ancor più la fondazione di monasteri “propri” (cioè privati, controllati dalla famiglia dei fondatori) erano strumenti di radicamento signorile.
Infine, i Canefri. La famiglia cui appartiene Oddo, autore della prima donazione documentata in favore della chiesa di santa Maria di Rovereto, potrebbe essere una delle formazioni signorili in cui si sono sovrapposti i due concetti di ufficiali regi (comites) e di discendenti di una dinastia che ha reso ereditario il potere con modalità che sono state illustrate in modo particolare per la realtà piemontese da Giuseppe Sergi. Dev’essere chiarito inoltre il rapporto tra i Canefri e gli Obertenghi, ceppo familiare legato a una delle quattro grandi “marche” dell’Italia settentrionale del medioevo, assieme ad Aleramici, Arduinici e Anscarici.
R. Livraghi


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