“L’ORTO DEL TENENTE”, di Paolo Puliti

Recensione a cura di Mattia Cattaneo
Nessuno dovrebbe morire in una notte d’estate come questa, ma il destino non mi ha dato scelta e non ha concesso altro tempo alla mia vendetta. Così sono di nuovo qui, a scavare una fossa in questa terra arida, arsa da una sete che sarà presto placata dal sangue di quest’uomo di cui non conosco nemmeno il nome. Ancora un cadavere da seppellire, un altro. E ancora d’estate. Basta.
Michele Trevi, cinquantenne romano commissario di Polizia, viene messo a riposo forzato dal suo superiore ma capisce che, suo malgrado, deve allontanarsi da Roma se non vuole ricadere nel vizio di lavorare e così decide che l’unica soluzione possibile per staccare sia quella di andare a fare visita a colei che forse è ancora la sua fidanzata: Teresa infatti, si è trasferita da tempo in Toscana dove lavora come guida turistica presso le prestigiose cantine del Chianti senese. La fresca ed esordiente penna “gialla” di Paolo Puliti ci permette di conoscere questo nuovo personaggio, Michele Trevi, che affonda la sua memoria nel passato doloroso della guerra, e di una storia, grazie all’aiuto di un vecchio contadino che viene svelata sul finale e che diventa la vera protagonista del libro.. Non proprio un giallo, nemmeno un'inchiesta ma solo la voglia di raccontare una vicenda vissuta a chi ha ancora voglia di ascoltare un’altra storia.
Con uno stile fresco, profondo e che mette in risalto con un linguaggio immediato e deciso, “L’orto del tenente” rappresenta il debutto della collana dedicati ai gialli de “La collina dei ciliegi” e siamo veramente orgogliosi che sia questo bellissimo scritto a darne il via.
Ecco qui un breve estratto tratto dall’incipit de “L’orto del tenente”
Questura centrale di Roma. Il segretario si affacciò alla porta dell’ufficio: «Entrate, il signor questore vi sta aspettando», il commissario Michele Trevi e il suo vice Nicola Ciampi si alzarono di scatto e così Trevi non riuscì a portare a termine nessuno dei neri pensieri che si rincorrevano nella sua mente da quando si trovava nella sala d’attesa del questore Maracci. Ciampi sorrideva e gli dava dei colpetti di gomito. A volte Trevi lo invidiava per il fatto di essere così superficiale e di riuscire a fregarsene di tutto, mentre lui, sempre più cupo in faccia, non ce la fece proprio a rispondere agli ammiccamenti del collega. Si avvicinarono alla scrivania del questore che li attendeva voltato di spalle. Maracci guardava fuori dalla grande finestra del suo studio, le mani unite dietro la schiena. Ancora non parlava. Trevi guardò Ciampi cercando un appiglio per districarsi dalla situazione imbarazzante, ma trovò la solita faccia da schiaffi che faceva smorfie da bambino scemo rivolto al questore. Si girò dall’altra parte per non stare ai suoi stupidi giochetti e rimase a fissare un punto della parete che aveva di fronte.
«Sedetevi!», ordinò il questore, ancora senza voltarsi. I due spostarono le sedie di fronte alla scrivania e si accomodarono.
«Noi siamo solo dei servitori dello Stato», esordì Maracci mentre si allontanava dalla finestra e lentamente prendeva posto alla sua scrivania. «Eh sì, miei cari signori, solo degli umili servitori dello Stato e come tali, c’è un’unica cosa che dobbiamo fare per compiere bene il nostro dovere…», li guardò diritto in faccia, spostando lentamente lo sguardo dall’uno all’altro: «Obbedire. Obbedire agli ordini, nient’altro. Soltanto obbedendo agli ordini dei nostri superiori, sia io che voi, possiamo dire di aver compiuto il nostro dovere fino in fondo»; parlava come sempre con molta enfasi, marcando l’accento sulle parole più significative del discorso. Trevi lo immaginò come un vecchio attore del teatro classico che conosceva a memoria la propria parte che recitava da anni e che alla fine di ogni frase attendesse il meritato applauso. Comunque non aveva ancora capito niente di quello che volesse dire.


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