Matteo Renzi: La giornata della memoria. Una sfida, non una cerimonia

Matteo Renzi
Quando lo presero a Firenze aveva 19 anni. Non è che lo presero, diciamola tutta. Fu venduto, da un conoscente, da un italiano. Venduto con tutta la sua famiglia per il solo fatto di essere ebreo: mamma, babbo, fratello, cognato, nipotino di 18 mesi. E quando lui riuscì a tornare, salvo per miracolo dopo mesi nei campi di sterminio, era rimasto solo. Gli altri membri della famiglia erano tutti “passati per il camino”, come canta Guccini nella canzone che prende il nome proprio da Auschwitz.
Nedo, questo è il suo nome, oggi vive a Milano. Qualche anno fa – quando ero presidente della provincia – mi contattò perché voleva rivedere la casa dove era cresciuto. Fu un momento di emozione intensa. E io gli chiesi di aiutarmi a tenere viva la memoria per le giovani generazioni. Insieme organizzammo allora dei viaggi con i ragazzi delle superiori per visitare i luoghi della tortura e dell’Olocausto. Ogni passo dentro Birkenau per lui era un’ulteriore sofferenza. Ma continuava a camminare per spiegare ai diciannovenni fiorentini di oltre mezzo secolo dopo che cosa era accaduto a lui: i 1200 cani, gli urli dei kapo, le ceneri buttate nella Vistola come cibo per pesci, la zuppa senza cucchiaio, le bastonate senza motivo, le camminate nella neve senza zoccoli. I bambini che arrivavano dopo sette giorni di viaggio e iniziavano a correre di gioia, scendendo per primi giù dal treno: felici perché ignari della direzione verso la quale stavano saltellando.
Sembrava rivivere l’orrore, quasi sentirne ancora l’odore. Ma lo raccontava perché restasse tatuato nel cuore della nuova generazione il senso di ciò che era accaduto. E perché quei ragazzi tenessero vivo il desiderio di opporsi al male assoluto, continuando a credere, lavorare, lottare per un mondo diverso. Perché nelle parole finali di Nedo non c’era solo l’atrocità. Ma anche e soprattutto la voglia di dare speranza ai più giovani.
“Come fai Nedo a credere ancora negli uomini?”, gli chiedevano i ragazzi, la sera, in albergo prima di ripartire. “Credo in voi” gli rispondeva e “da un grande male può nascere un grande bene”.

Il, 27 gennaio, celebriamo la giornata della memoria. Ma non può essere solo una cerimonia. È innanzitutto l’occasione per dire grazie a quelli come Nedo. Alla loro straordinaria capacità di resilienza. Sono stato fortunato a incrociare i miei passi con quelli di persone come Nedo. E penso che la politica sia bella quando ti consente di affrontare incontri di questo genere. E poi c’è il domani. Il 27 gennaio, certo, è il giorno in cui cadono i cancelli dei Auschwitz. Un luogo fisico, non solo un simbolo. Con quella scritta assurda all’ingresso. Il numero di morti che non riesci neanche a tenere in testa. Il bambino impiccato davanti al quale Elie Wiesel si chiede dov’è Dio “è lì, su quella forca”. Gli occhi della mamma di Nedo, prima della selezione. Il padre Massimiliano Kolbe, la cui storia ti hanno insegnato a catechismo. Ma il 27 gennaio è anche e soprattutto un invito a ciascuno di noi. A vivere il tempo che ci è concesso da protagonisti e non da spettatori. A non rassegnarsi alla banalità del male e a gustare in profondità i valori che fanno grande una comunità. E questo vale soprattutto per i più giovani.
Quando avevo 19 anni io il mondo non si è scomposto per i massacri nella regione dei Grandi Laghi, in Africa. O l’anno dopo a Srebrenica. Il dolore nel corso degli anni si è ripetuto e moltiplicato anche se l’Olocausto non ha paragoni possibili. Ma l’odio contro il diverso è sempre in agguato. E allora dobbiamo alzarci in piedi e lottare, anche oggi, come ci hanno chiesto e insegnato i sopravvissuti.
Perché quando finiscono le cerimonie, questo rimane il punto: la politica deve fare di più per coltivare il senso della storia e il valore della memoria. Lo dobbiamo a donne e uomini come Nedo, sicuramente. Ma lo dobbiamo innanzitutto a noi stessi. Per me il 27 gennaio non è una cerimonia, è una sfida: ne saremo all’altezza?
Matteo

Commenti

Post più popolari