IL KEBAB by Giuseppe Guaragna
IL KEBAB – GIUSEPPE GUARAGNA
Seguivo da un po’ un pezzo di
donna che avanzava sul marciapiede con la sicurezza di un rompighiaccio,
travolgendo gli incolpevoli pedoni che non lasciavano spazio al suo incedere
maestoso. I miei occhi fissi sul movimento dei glutei che, come piccole
mongolfiere nel vento, parevano scontrarsi e respingersi, in un continuo e
ipnotico moto sussultorio.
Trascinato inconsapevole, come un
tonno all’amo, per le vie del quartiere, mi ritrovo all’improvviso fra odori di
carne allo spiedo e spezie orientali. Disimpegnati a fatica gli occhi da tanta
immensità, li alzo verso l’insegna non molto distante.
“Ke barbarie” leggo, che
guardando meglio diventa “Kebabberia.”
Nel frattempo, sua tantezza si
sta intanando in un portoncino poco più avanti.
Continuando a camminare, mi
avvicino. Indubbiamente è una bella botteguccia; i canonici spiedi verticali
rotanti, pavimento ed espositori più che puliti, pareti decorate con belle
riproduzioni, illuminazione adeguata, un’aria accattivante e un cartello
scritto in un italiano corretto che, a leggerlo, mi intriga non poco
spingendomi ad entrare. “Chiedete e vi sarà cucinato.”
Varco la soglia con una certa
apprensione, siamo un po’ fuori orario e non c’è ancora alcun cliente. Saluto e
sotto lo sguardo vigile del cassiere e di un paio di cuochi tuttofare, mi
interesso al menù. Specialità orientali, ovviamente, con la presenza ecumenica
di tutti quei Paesi della fascia mediterranea che da anni ci fanno dono dei
loro migliori frutti, datteri, cucina etnica e migranti di ogni sesso ed età,
etnia e religione.
Io, a dirla tutta, le odio le
specialità orientali ma, per mia sventura, appartengo a quella categoria di
consumatori incapaci di entrare in un negozio e di uscirne a mani vuote.
Riguardo il menù… niente cibo per umani purtroppo, guardo il cassiere che
sembra essere anche il titolare - un bel giovane che potrebbe passare per un
siciliano molto abbronzato - che mi sorride incoraggiante, guardo ancora il
menù ma non trovo nulla che possa anche lontanamente risvegliare il mio
interesse culinario e, di conseguenza, non riesco ad enunciare alcuna benedetta
ordinazione. Poi mi ricordo del cartello.
“Salvo”, penso.
“Ho letto il cartello” dico
“Cucinate veramente di tutto?”
“Si su cartello ci è scritta
tutto, vuò dicie che noi ti cucina tutto. Chiara?”
“Eccerto!” penso “Chiara… come
no!”
“Tu mi pare un po’, come dicie,
indiciso. Per casa sta a decide per una qualche cosa speciale?” mi chiede con
quel suo italiano approssimativo, ma comprensibile, e quel sorriso sicuramente
falso, ma dispensato generosamente.
“Eccerto!” ripenso. “Per casa…
per chi se no.”
“Eccerto!” dico, aggiungendo,
“Riso, patate e cozze” tutto d’un fiato. “Tre porzioni.”
Il moretto inaridisce il sorriso.
“Che fa’ tu mi sfotta?” mi
risponde un po’ acido.
“Mi sfotta? Epperchè! Non
cucinano di tutto? Dov’è lo sbaglio?” mi domando a raffica.
Appena un attimo e capisco. Il
moro è un purista, un ortodosso della cucina regionale e ha ragione da vendere,
ho sbagliato l’ordinazione invertendone i termini. La dizione esatta è “patate,
riso e cozze”, non “riso, patate e cozze”, il classico errore da forestiero.
“Pataterisoeccozze, trepporzioni”
glielo sciorino tutto d’un fiato sorridendogli. “Vedi” voglio dirgli “ho
capito.”
Il bel giovane, simil siculo
abbronzato, mi guarda e mi sembra di scorgere il primo pizzico di simpatia, in
quegli occhi scuri e malandrini. Poi, con voce calda e ben impostata mi
sbalordisce.
“Perché insiste, signore. Non
posso dare seguito alla sua ordinazione, espressa per altro nella giusta
formulazione di “patate riso e cozze”, come disposto nell’antica e originale
ricetta barese. Noi ci occupiamo solo di cucina etnica orientale, ed è
giustappunto a quella, e a null’altro, che si riferisce il cartello colà
esposto.”
Credetemi, se c’è qualcuno
nell’universo mondo che ha corso il rischio di restarci come la moglie di Lot
durante l’uscita, diciamo così, un po’ caotica da Sodoma, ebbene amici miei,
quello sono io.
“Formulazione? Giustappunto?
Colà?” penso “ma come, prima sembri ‘Andalù portalo via’ del professor
Lombardi, con la bertuccia al collo, e ora parli come un laureato alla Luiss?”
“Le chiedo scusa.” mi fa, con un
sorriso che finalmente è un sorriso vero, che va oltre gli occhi e staziona ad
un palmo dal soffitto.
“Sono il dottor Hamir Khalin, ho
una laurea in scienze sociali che, qui in Europa, non viene riconosciuta. Questo
take away mi consente di mantenermi agli studi e di far vivere con dignità la
mia famigliola.” La mia famigliola. Bella storia, certo.
Il ranocchio si trasforma in
principe, Biancaneve si toglie la scarpetta e lo sposa. Cenerentola arriva a
capire che Cappuccetto Rosso non è un profilattico, e le permette di fare la
damina del velo, mentre sei o sette nani insidiano, visto che ha sonno e il
principe ha marcato visita, la Bella Addormentata e, alla fine della fiera,
vissero tutti felici e contenti.
Mi presento anch’io, ovviamente.
Ci scambiamo il cinque e qualche amenità, ci proponiamo il tu e, con larghezza,
ce lo concediamo. Da buon samaritano mi offro di aiutarlo per quanto mi è
possibile, e Hamir, da povero cristo laureato come tanti altri poveri cristi,
accetta per quanto gli è possibile, ci scambiamo numeri di telefono, account
Facebook e indirizzi mail e cerco di sganciarmi. Le spezie mi stanno
anestetizzando il cervello e brutalizzando i polmoni. Nel frattempo Hamir, con
la complicità del cuoco, sta impacchettando qualcosa.
“Permettimi una gentilezza
Giuseppe. Kebab per te e per la tua famiglia.”
Diomiobuondio! E come faccio ora!
Come gli dico che io lo odio il Kebab, profondamente, intensamente,
inderogabilmente. Ingaggio una schermaglia verbale fatta di “non è il caso -
per me è un piacere - non devi - per me è un piacere – mi imbarazzi – per me è
un piacere” che, ahimè, so soccombente fin dall’inizio. Sono un mite per natura
e perdente per vocazione e quindi alla fine accetto e chiedo della birra. Mi
insacchetta una confezione da sei e me la scontrina con lo sconto. Mi oppongo,
si oppone al fatto che io mi opponga, mi oppongo ancora, “non lo ritengo
giusto”, si oppone ancora, lo ritiene giusto, continuo ad oppormi, “mi
imbarazzi”, continua ad opporsi, “è il minimo per un amico”, “ma siamo amici da
mezz’ora”, “il tempo è una convenzione aristotelica che rifiuto.”
Ne esco sconfitto, con un
sorriso, e accetto lo sconto. Ve l’avevo detto che sono un mite, no?
Ci salutiamo con pacche, baci e
un abbraccio virile.
“Tu viene a mi trova quando vuò,
io ti aspetta e ti fa conoscie mia famiglia.” Fa sghignazzando.
“Certa che io ti viene a ti
trova. E… fanculo Hamir.”
Intanto l’alieno nella busta
esala vapori venefici che mi intorcigliano le sinapsi facendomi immaginare in
rianimazione - non più rianimabile - con Tommaso, il rianimatore amico di
famiglia, che spiega con gentilezza a mia moglie in lacrime, l’inspiegabile.
“Ucciso dalle esalazioni di un Kebab assassino. Una patologia rarissima e che
non lascia scampo, un decesso fuori dal comune. D’altronde, diciamolo pure
amica mia, tutta la vita di tuo marito è stata piuttosto fuori dal comune.
Condoglianze Lucia, capita.”
Mentre mi compiango tentando il
record europeo di apnea in movimento, eccola la visione, il miracolo.
Yorik, il punkabbestia e Fofò, il
pit bull più trucido del quartiere.
Yorik a cui passo sempre qualche
sigaretta e qualche spicciolo per il sapone che lui certamente destina ad altri
usi.
“Yorik” lo chiamo, mi ha visto
ma, quando c’incontriamo, finge. Punkabbestia sì, ma la dignità non si baratta
col sapone.
“Yorik” mi è quasi addosso, non
può fingere più. Mette in scena un sorriso falso come una moneta da tre euro e,
accarezzandosi i quattro peli che chiama barba, mi saluta
“Ciao Giuseppe, come sta la mia
prof.?”
Sul suo saluto non c’è mai un
solo indirizzo, è fatto così. Alunno coccolato di mia moglie, che ha una
passione smodata per i randagi e i creativi, la ricorda sempre con amore.
Punta l’indice inanellato verso
la busta, arricciando il naso e usmando con rumore.
“Questo è kebab di Hamir, non ce
n’è di meglio in città.”
“L’ho preso per te.” mento. Lui
sa che mento ma è contento lo stesso. Ricordate? La dignità.
“Sono almeno quattro.” Mi fa.
“Eccerto”continuo a mentire come
un politico con l’anima di in un venditore di tappeti. “Sono quattro, due per
te e due per Fofò.”
“Due per Fofò. Hai pensato anche
a lui… Dolce!” e prende la busta.
Fofò nel frattempo, a sentirsi
tirare in gioco, ha iniziato una specie di balletto girando a trottola,
sbavando, uggiolando e aggrovigliandosi tra guinzaglio, zampe e collare. Yorik
lo strattona, e lo rimprovera.
“Sai Giuseppe, mi sa tanto che
‘sto cane è frocio. Pare uno di quei culturisti tutto anabolizzanti e scarsi a
testosterone. Lo porto ad accoppiarsi con Salomè, la cagna di Pennello il
graffitaro, e quello manco la degna di una sniffatina, e sniffa l’inguine al
mio amico. Pennello dice che è il nome che gli ho dato, Fofò, un nome da
checca.”
“Yorik” gli faccio “ma come
parli! Queste sono espressioni omofobe.”
“Mene fotto. Un frocio resta
frocio pure se lo chiami gay. E poi, io sto parlando del mio cane. Posso
parlare del mio cane?”
L’argomento non mi appassiona e
cerco di riportarlo su cose concrete.
“C’è anche della birra.” Gli
dico.
“Birra?” mi chiede sospettoso.
“Tuborg.”
“Piscio di cammello”.
Strafico il ragazzo, a Bari la
birra è una religione con un solo Dio: Peroni. Il resto è solo mistificazione,
volgare bibita giallo oro, al sapore di luppolo, leggermente alcolica.
“Le butto via?”
“No, dammele. Tento una permuta.
Sai -mi fa con aria cospiratoria e disgustata- mi hanno detto che c’è gente in
giro che ‘sta roba la beve.” Parla a me, ma mi accorgo che ha l’occhio a spillo
puntato alle mie spalle.
Mi giro per vedere l’oggetto di
tanta attenzione, ed eccola di nuovo. Sull’altro marciapiede sua tantezza
incede con la già vista maestosità. Questa volta mi offre la visione frontale
che, devo riconoscerlo, mi lascia intontito. E’bellissima. Tra i quaranta e i
cinquanta è la copia sputata e in formato A3 di Claudia Cardinale nel fulgore
della maturità.
Yorik le sorride e lei gli
restituisce il sorriso e un frullo di mano.
“E’ Luna” mi confida. “E’
arrivata tre settimane fa da Parigi. Abita vicino alla kebabberia ed è una chef
de cuisine.”
Ancora intontito e incapace di
razionalizzare, mentre Luna scompare dietro l’angolo, gli allungo le birre e i
soliti cinque Euro.
“Ciao Giuseppe, un bacio alla
prof.”
Neanche un tentativo di
gentilezza, un grazie Giuseppe. Solo un bacio alla prof. E’ la dignità,
bellezza, che ci vuoi fare.
Guardo l’orologio, quasi le otto.
Patate, riso e cozze. Non è l’ora giusta per prepararlo ma è possibile trovarne
di già pronto da Nicolaus. Prendo il telefonino e chiamo mia moglie. Tre
squilli.
“Dove sei?”
Certo… dove sei. Oggi chi
risponde più - pronto? - Oggi siamo più interessati alla geolocalizzazione.
Dove sei.
“Aspetta un attimo che mi guardo
intorno… Mah, che ti debbo dire… A prima vista assomiglia a Bari… no, no, non
assomiglia… è proprio Bari… è la via di casa ed io sto tornando. Senti, avevo
pensato di prendere qualcosa di cucinato. Magari patate, riso…”
“I ragazzi vengono a casa” mi
interrompe “ceniamo da giù.”
Ceniamo da giù, nel lessico
familiare, significa spendiamo qualche soldo in rosticceria. Che è una delle
cose che mal sopporto. Non per la spesa, ci mancherebbe, è che per me la
rosticceria è roba da universitari fuori sede o rappresentanti risparmiosi.
“…e cozze.” concludo comunque il
pensiero interrotto, anche per tentarla.
“Luca ha detto che fa lui. ”
Perentoria la mia signora. Quando ci sono i ragazzi a casa, non c’è storia.
“Occhei.” inglesizzo e chiudo. Se
mi va bene stasera finisce ad arancini e mozzarella in carrozza, altro che
patate, riso e cozze. E che puoi volere di più dalla vita!
Qualche minuto dopo ci
incontriamo al portone.
Guardo mio figlio, accarezzo mia
nuora, bacio Mattia il nipotino. Ne mancano due, i fidanzatini siamesi.
“Ivan e Paola?” chiedo.
“Sono già su” risponde mia nuora
mentre il marito, “Visto che ci sei”, mi passa un sacchetto. Distratto dai
farfugli del bimbo “Nonno Pippo, c’è su uovo Kinder, per me?”, e distratto dal
suo profumo di sapone, borotalco e crema Johnson, realizzo con un attimo di
ritardo un odore sospetto.
“Scusa Luca, che c’è nel
sacchetto?”
“Papà! Non lo senti il profumo?”
Profumo, capite? Lo chiama profumo!
“Eccerto che lo sento il profumo,
ma non dovevamo mangiare da giù?” chiedo mentre l’occhio si posa sul sacchetto.
Il solito marchio, lo stesso indirizzo, praticamente sotto casa. E’ lui, lo
stramaledettissimo Fabio ha tradito l’onore della cucina umana, e si è
convertito al Kebab.
“E da giù l’ho preso. Kebab, è il
primo giorno che Fabio lo prepara.” mi dice.
“Checculo” dico “Vedi figlio mio
questa è la fottu… la fortuna della globalizzazione. Vuoi uno schif… uno
schianto di kebab? Non devi più spendere una somma per andare a Izmir o
Islamabad. Lo trovi da Fabio, sotto casa. Che Dio lo stramal… lo strabenedica.
Il kebab di Fabio, e che puoi volere di più dalla vita.”
Intanto, avvicinandoci
all’ascensore, cerco il sistema per sganciarmi. Mai avrei affondato i denti in
quella cosa graveolente. Nella gola di Fabio, alla ricerca della giugulare,
magari, ma mai in un kebab.
Arrivati alla pulsantiera, inizio
lo sganciamento. Guardo l’orologio, lo riguardo, fingo un attimo di
straniamento, guardo ancora ostentatamente il Rolex (un vero “finto” Rolex da
cinquanta euro, sai com’è, siamo a Bari) e finalmente arriva.
“Guardi l’ora, papà, o devi
diagnosticargli una malattia rara a quell’orologio?” mi fa il medico frutto dei
miei lombi, l’amatore di Kebab.
“Scusa Luca oggi è mercoledì o
martedì” gli chiedo tra il preoccupato e il mortificato.
“Giovedì” lo precede mia nuora
“Pippo, oggi è giovedì.”
“Nonno Pippo, oggi è giovedì.”
gli fa eco Mattia.
“Mio Dio! Dio mio del cielo! Ma
dove vivo!… Dove ho la testa!… Maledetta vecchiaia!... E’ che sto viaggiando ad
alta velocità e in prima classe verso l’Alzheimer!” e altre idiozie simili.
“Ma siamo sicuri che è giovedì? E
che ora è?” dico guardando l’orologio.
“Scusa papà, ma su quell’orologio
la leggi tu l’ora, o te la dice lui quando gli garba?”
“Smettila!” gli sibila mia nuora.
Sta abboccando come una pesciolina.
“E’ giovedì, Pippo, e sono quasi
le otto e dieci.” Sarebbe tentata di aggiungere “di sera”, visto che è buio, ma
ha pietà e sorvola.
“Forse ce la faccio, appena
appena.” dico fingendo un sollievo che non provo e restituendo il malefico
sacchetto.
“Ma che c’è di tanto urgente a
quest’ora?” chiede mia nuora.
“Devo incontrare il senatore.” E’
la parolina magica, il passepartout per la libertà. Al senatore non si nega
nulla. Se il senatore ti sveglia chiamandoti alle quattro del mattino, tu gli
dici che stavi ascoltando musica e bevendo il secondo caffè.
"E il Kebab?"
“Se, come dici, è una prima
edizione, potrei conservarlo tra le rarità” cerco di scherzare “comunque di’ a
mamma di metterlo nel forno, quando torno lo get… lo mangio, sempre se non ceno
col cenatore.”
“Papà, è una battuta o inciampi
nelle parole?”
“Che ho detto?”
“Cenatore invece di senatore.”
“Lo vedi? Ma poi, un senatore non
può essere anche un cenatore?”
“Pippo”mi fa mia nuora “ma non ce
la facevi appena, appena?”
“Certo.Vado, vado.” Mi
sbaciucchio il nipotino e guadagno il portone. Libero. Il kebab se lo godessero
loro.
Guardo l’orologio, sono le otto e
venti, ci sto largo. Nicolaus ce l’ho a dieci minuti di strada e, a quest’ora,
è nel pieno dell’attività. Ha la più antica pesciera della città che, con
l’acume del commerciante levantino, ha ampliato con un take away ittico, e una
magnifica sala degustazione-bar che è il paradiso in terra. Non c’è mollusco
che non sia presente nelle varietà più pregiate, salmone affumicato delle
migliori qualità, carpaccio di tonno e pesce spada, bottarga e alici alla
paprica, filetti di spigola e dentici macerati in marinate dalla composizione
segreta quanto quella della Coca Cola. Insomma di tutto di più, ad esclusione
del caviale, che a lui non piace, e del sushi “che fa schifo alla gatta”, usa
dire rifiutando gli inviti a prepararlo.
Già comincio a pregustare
l’amalgama delizioso degli ingredienti semplici e gustosi del mio piatto
preferito. Le patate a rondelle, dorate in superficie, il riso insaporito dalle
cozze, dalla cipolla e dal pomodoro, e le cozze, quello scrigno di bontà, che
ti scivolano in bocca e te la profumano di mare.
Arrivo da Nicolaus quasi
correndo. E’ sulla porta e, vedendomi, mi sorride.
“Giuseppe, da quanto tempo…”
Nicolaus è questo. Anche se sei stato da lui a pranzo, a cena ti saluta così,
“… da quanto tempo.”
“Ciao Nico” lo saluto, mentre ci
avviamo al bar per un prosecco e una dozzina di ostriche.
“Nico, patate riso e cozze. Sto
in crisi d’astinenza e stasera a casa è vigilia.”
Brindiamo e, mentre comincio la
suzione della prima ostrica, Nicolaus mi sorride. Lui sorride, sorride sempre,
anche quando demolisce la mandibola di un disturbatore.
“Giuseppe, amico mio, stasera
solo patate e riso. Il furgone ha avuto un incidente e oggi niente cozze. Lo
sai, o sono depurate nel mio ‘sciale’ o ci rinuncio.”
Mi salva dal mancamento la bontà
della terza Belon che sto gustando con l’attenzione che merita.
“Nico,non è serata allora, tu mi
condanni alla cucina etnica.”
“Giuseppe, ho una sorpresa, però.
Stasera ho una cuoca in cucina che non ne ho mai avute. Se vuoi ti faccio
preparare qualcosa”
“Nico, non è serata allora, tu mi
condanni alla cucina etnica”
“Giuseppe,ho una sorpresa, però.
Stasera ho una cuoca in cucina che non ne ho mai avute.Se vuoi ti faccio
preparare qualcosa”
“Nico, qualcosa non vuol dire
niente e può dire tutto, perfino che ti sei convertito al sushi o alla cucina
vegana! Me lo devi dire che mangio.”
“E che ti dico… è da stamattina
che ha messo a marinare ogni ben di Dio. I ragazzi in cucina pare che l’ha
pigliati la tarantola. Fidati.”
Decido di fidarmi, d'altronde se
ti fidi dei politici, puoi ben fidarti di Nicolaus, mi dico. Mi accompagna al
tavolo e si siede con me. Il cameriere mi porta le ostriche e il prosecco che
stavo consumando al banco e guarda Nicolaus.
“A che ora viene il senatore con
gli amici?”
Sussulto! E che sono diventato,
telepatico?
“Ha chiamato che sta arrivando.”
“Ti dispiace aspettare?” mi
chiede con la più bella faccia tosta sapendo che fra me e il senatore c’è
un’amicizia più che trentennale. “Così la facciamo una bella tavolata.”
Non faccio in tempo ad articolare
un insulto a modo mio che la saletta si riempie di saluti, battutacce da
cantina, pacche sulla schiena e baci sulle guance. Siamo alla vigilia
dell’ennesima tornata elettorale e i politici si trasformano in baciatori. Le
traversie e gli insegnamenti del povero Andreotti, e dei suoi bacetti mafiosi,
sono riposte per il dopo elezioni.
Il senatore guarda verso di me e
gli si illumina il viso.
“Pippuzzo!”
Può uno alla mia età farsi
chiamare Pippuzzo? Certo che può, se è un senatore della Repubblica e un
vecchio amico che ti chiama così. Ovviamente da baciatore impenitente, mi bacia
e mi presenta ai suoi amici che in buona parte già conosco. A scalare c’è un
sottosegretario, un deputato, un consigliere regionale e un assessore comunale.
“Nicolaus, cinque noi e Pippuzzo,
sei” fa il senatore “Fai un solo tavolo. Nella saletta. ”Poi rivolto a me “Sei
ospite nostro.”
“Salvo” penso, avesse detto sei
ospite mio, avrei dovuto pagare per tutti. E’ così che funziona con il
senatore, se sei suo ospite, paghi per tutti. E’ una tecnica raffinata e
affinata negli ultimi vent’anni. Chiede il conto e quando arriva finge di
rispondere al cellulare. Si alza di scatto e, mimando il nome di un qualche
Ministro o ex, “per riservatezza” si allontana non prima di aver fatto
segno al prescelto di pagare. E una volta che hai pagato che fai? Ti fai
rimborsare? Il senatore è ricchissimo di famiglia e non lesina certo nello
spendere, ma a tavola tutto gli è dovuto… eccheccacchio… il titolo!
Intanto i camerieri hanno
apparecchiato e possiamo sederci. Da Nicolaus gli antipasti non si ordinano,
non occorre. E’ lui che decide e dirige i camerieri come un direttore
d’orchestra. In men che non si dica il tavolo è un tripudio di frutti di mare
crudi e cotti nelle più svariate salsine, fritture di verdurine e alici,
frittelle di novellame (la cui pesca, preparazione e vendita è ovviamente
vietata per tutti meno che per Nicolaus), tartine di pane ungherese ricoperte
di bottarga e portulaca tritata finissima, pasticcio di fegato di coda di
rospo, violette d’Otranto, seppioline alla menta e timo, spiedini di ostriche
fiammate all’aceto balsamico, anguilla marinata e tanto, tanto altro ancora.
Guardare mangiare i politici è
esercizio intellettuale dei più raffinati. A tavola ne scopri pregi e difetti,
cultura e origini, vezzi e capricci. In vino veritas trova in loro
l’espressione piena del suo significato. Ma lasciamo andare… in fondo sono
amici.
Nicolaus, da buon anfitrione, ama
sedersi con i clienti che godono della sua considerazione. E’ un conversatore
piacevole, sempre aggiornato sugli ultimi pettegolezzi che girano in città.
“E il buon Andreotti come sta,
senatore? L’ha visto ultimamente?” chiede. Pur sapendo che è morto, continua a
chiedere di lui.
“Nico, è morto.” Gli ricordo.
“Giuseppe, con Andreotti non si
può mai sapere… dico bene senatore?”
“Certo che dici bene. Con Giulio
non si era mai certi di niente.”
Mentre si conversa così
amabilmente, tra un bicchiere di Verdeca di Gravina e una forchettata di ben di
Dio, si spengono le luci e, come demoni dall’inferno, appaiono quattro
camerieri con i vassoi fiammeggianti che depongono sul carrello di servizio.
Riaccese le luci e fatto spazio sul tavolo, ecco serviti i frutti del lavoro
della nuova cuoca.
Pescespada, tonno, salmone
selvaggio e cernia, sfilettati, tenuti a macerare in chissà che, cotti alla
fiamma di chissà cosa, e serviti con salse, verdure tagliuzzate sottilissime e
altrettanto sottili piadine calde.
Dire che facciamo onore alle
pietanze, sarebbe retorico. Ci gettiamo letteralmente sui piatti divorando
tutto e non lasciando nemmeno una briciola per il tritarifiuti. Il sapore dei
pesci esaltato e mai mascherato dalla macerazione o dal court bouillon, le
salse delicatissime e mai coprenti, le verdure mescolate con maestria e le
piadine fragranti di frumento e olio.
Nicolaus aveva assaggiato un po’
di tutto ed era rimasto ammaliato.
“Ho fatto un affare a prenderla
in prova. E chi la lascia più!” Dice con un tono di voce soddisfatto.
“Ve la faccio conoscere.”
E dopo qualche minuto, la
conosciamo.
Entra precedendo Nicolaus con
portamento regale. Bellissima, imponente. Sorrideva e pareva che il sorriso
fosse per ognuno di noi. Le ore di cucina non l’avevano minimamente stancata né
sciupata.
Era lei, la chef de cuisine.
Luna.
Restiamo fulminati. Al senatore
cade la mandibola e resta così, incapace di chiudere la bocca. Al
sottosegretario si offusca la vista, deputato e consigliere regionale sono
presi da tremori e iper salivazione. L’unico a degnarla solo di uno sguardo è
l’assessore comunale che non fa una piega. Ma si sa, lui è felicemente gay.
Luna, certamente abituata a
causare le reazioni più varie nei malcapitati esseri di sesso maschile, non si
turba più di tanto e stringe la mano ad ognuno di noi. A me sorride come a dire
“ti conosco mascherina” e mi porta le pulsazioni a centottanta. Si accomoda
sulla sedia che era di Nicolaus, ci racconta un po’ di sé, ci chiede un po’ di
noi.
Io sono completamente nel pallone
e seguo la conversazione a sprazzi. Mi rianimo all’arrivo del sorbetto di
limone e dei liquori. Offro un Cointreau a Luna e prendo un single malt liscio
per me. Il senatore intanto, ristabilita la posizione naturale della mandibola,
le sta chiedendo dei suoi programmi.
Resterà in Italia, è stanca di
girovagare per l’Europa e ha un’idea imprenditoriale da sviluppare.
“Vi sono piaciute le mie
preparazioni?” ci chiede. In coro ci lanciamo in lodi sperticate che,
obiettivamente, sono tutte, e di più, meritate.
“Bene” continua “Servite al
tavolo, per ovvi motivi, hanno un costo elevato, accessibile ad una clientela
ridotta. Se invece le proponiamo al Take Away, potremmo decuplicare le quantità
vendute preservando comunque la qualità.”
A Nicolaus s’era acceso l’occhio
levantino, quello degli affari.
“E come lo vendiamo, in vaschette
con le posatine di plastica?”
“No. Ed è questa la novità!” Dice
Luna. “Tagliamo il pesce a striscioline, lo mettiamo sulla piadina, lo condiamo
con le salse e le verdure, e arrotoliamo la piadina a cono.” Sospende la
spiegazione e ci guarda per creare un po’ di suspence.
“Fisch Kebab, un’assoluta novità.
Il Kebab di pesce.” Conclude alzandosi a metà, come in attesa di un applauso
che in effetti arriva.
E mentre tutti si congratulano io
scoppio a ridere, una risata viscerale, irrefrenabile e, incapace di smettere,
comincio a diventare paonazzo. E’ una risata isterica e come tale va trattata.
Un paio di ceffoni e torno normale.
Il senatore mi guarda per
sincerarsi del mio ritorno alla normalità e si tranquillizza.
“Ma perché ridevi?” Mi chiede,
che poi è la domanda che si stanno facendo tutti.
“Perché è da ore che lo sfuggo il
maledettissimo Kebab. Perché io lo odio il Kebab!”
GPG
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