L'economia dei "tre zeri" 2.0, by Bruno Soro

“forse la crisi  attuale non è ancora abbastanza profonda e drammatica per poter scatenare conflitti radicali (…).
Non è da escludere, tuttavia, che le feroci polemiche di austerità  introdotte nella UE dai governi per salvare in apparenza i bilanci pubblici, in realtà per salvare i grandi gruppi finanziari, diano un contributo significativo all’inasprimento di quei conflitti”
L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Editori Laterza, Bari 2012
Mi chiedo come si possa non raccogliere il suggerimento di una Amica che si firma “Lettrice fedele sempre”. Nel corso di una nostra corrispondenza[1], la gentile lettrice mi invita a divulgare “la mia interpretazione personale dei fatti” elaborata in risposta ad una sua domanda rivoltami nel messaggio di apprezzamento del mio “L’economia dei «tre zeri». Eccola quindi accontentata. Con l’aggiunta di qualche ulteriore considerazione a commento di alcune altre domande circa “quell'Europa che sembrava possibile alla nostra generazione e che l'inconcludenza e gli egoismi nazionali hanno ritratto come la grande Occasione Perduta”.
Nella sua prima domanda, tutt’altro che banale, mi viene chiesto di illustrare il "perché con la lira ci disperavamo per l'inflazione ed ora l'invochiamo". Il «perché», ho innanzitutto precisato, vale a dire la ricerca delle cause dell’inflazione, andrebbe ricercato nelle teorie che spiegano quel fenomeno, nella consapevolezza che la teoria che si adotta per spiegare l’inflazione può non chiarire affatto il fenomeno opposto, quello della deflazione. 

Definita come “la perdita generalizzata del potere d’acquisto della moneta”, l'inflazione è infatti un fenomeno difficile da spiegare, non suscettibile di un’univoca interpretazione. Tant’è vero che esistono diverse teorie, ciascuna delle quali ne chiarisce un aspetto, ma nessuna di esse esaurisce interamente l’analisi delle cause. Le principali teorie dell’inflazione riportate sui più quotati manuali di Macroeconomia sono: la teoria «da eccesso di domanda», quella «da eccesso di moneta in circolazione» e la teoria dell’inflazione «da costi». Ora, in un momento come l’attuale, caratterizzato da alcuni milioni di disoccupati e da una capacità produttiva ridottasi del 25% in seguito alla crisi economica (una crisi che si avvita ormai su sé stessa da otto anni), possiamo tranquillamente escludere quale causa di inflazione un «eccesso di domanda»: tutto si può dire infatti tranne che nel nostro sistema economico vi sia eccesso di domanda (caso mai è vero il contrario).
Analogamente possiamo escludere che a provocare l’inflazione possa essere un «eccesso di moneta in circolazione», dal momento che la BCE, nel tentativo di riportare l’inflazione zero alla soglia del 2% (ritenuta fisiologica) e al tempo stesso allo scopo di stimolare la crescita economica, sta inondando i mercati di liquidità, ma né la deflazione (ossia un tasso d’inflazione anche se di poco inferiore allo zero), né tanto meno la crescita economica paiono risentirne. Pertanto, con tassi d’interesse prossimi allo zero, la politica monetaria sembra essere del tutto inefficace. Infine possiamo escludere anche l'inflazione «da costi», poiché, con il mercato del lavoro reso flessibile dalla normativa sul Jobs Act, la presenza di una massiccia disoccupazione ed il prezzo del petrolio ai minimi storici, non sembrano proprio esservi le condizioni per un aumento dei costi.
E allora, mi chiede la gentile lettrice, "perché con la lira ci disperavamo per l'inflazione ed ora l'invochiamo"? Una possibile risposta, che in parte si rifà a due delle teorie più sopra richiamate, ma che le integra in un contesto più ampio, è che la causa dell'inflazione andrebbe ricercata prioritariamente nell’esistenza di quel «conflitto nella distribuzione del reddito» che sta alla base della narrazione proposta dal prof. Luciano Gallino contenuta nel bel libro richiamato nell’epigramma.
Dagli inizi degli anni ’70 del secolo scorso, anni in cui il potere sindacale aveva raggiunto il suo massimo e la distribuzione del reddito era andata via via ad incrementare la remunerazione del lavoro (a scapito della quota dei profitti), si è manifestata una forte «inflazione importata», innescata dalle «guerre petrolifere» che avevano fatto salire alle stelle il prezzo del petrolio. In quegli stessi anni, poi, la presenza del meccanismo automatico di adeguamento dei salari all’inflazione, la cosiddetta «scala mobile», aveva favorito l’amplificazione di quel fenomeno elevando il tasso d’inflazione a due cifre. Con la parziale abolizione della scala mobile da parte del Governo Craxi nel 1984 (confermata dall’esito del referendum abrogativo tenutosi l’anno successivo) e la sua totale eliminazione da parte del Governo Amato nel 1992, la quota dei profitti sul reddito aveva iniziato a recuperare rispetto a quella dei salari. Quel conflitto nella distribuzione del reddito favorito dalla conquista dei diritti sindacali seguita all’approvazione nel 1970 dello Statuto dei lavoratori è poi praticamente venuto meno all’inizio del nuovo secolo, contestualmente all’introduzione della moneta unica.
La formale introduzione dell’euro il 1° gennaio del 1999 è avvenuta sulla base delle quotazioni dei tassi di cambio tra le valute degli undici paesi ammessi alla moneta unica alla data del 31 dicembre 1998. All’introduzione dell’euro quale moneta cartacea il 1° gennaio 2002 ha poi fatto seguito una sorta di «inflazione interna» provocata dalla svalutazione del cambio «ufficiale», da poco meno di duemila lire per ogni euro applicato nell’adattare i redditi dei lavoratori dipendenti alla nuova moneta, ad un cambio «effettivo» di mille lire per ogni euro, con conseguente riduzione della capacità d’acquisto dei salari di oltre il 30%.[2]
L’avvenuta riduzione della capacità d’acquisto dei salari ha provocato un calo repentino dei consumi[3], al quale ha fatto seguito una contrazione degli investimenti da parte delle imprese (contrazione che è andata ad aggiungersi alla riduzione della capacità produttiva per effetto della crisi del 2008), unitamente ad un ulteriore indebolimento della capacità d’acquisto di quei lavoratori licenziati in conseguenza della crisi. Nell’impossibilità di contrastare la crisi economica con l’aumento della spesa pubblica, dati i vincoli di bilancio imposti dal Trattato di Maastricht, si è venuta quindi a creare una consistente «carenza di domanda effettiva» (meno spese per consumi, meno investimenti e blocco della spesa pubblica), con la sola eccezione delle esportazioni, la cui crescita è stata favorita dalla svalutazione interna, con conseguente riduzione dei salari.
In un simile contesto, la politica monetaria messa in atto dalla BCE, con i tassi d’interesse praticamente a zero, si sta dimostrando del tutto inefficace, sia nel contrastare la deflazione, sia nel favorire la ripresa economica. Analogamente, la politica fiscale (ossia il controllo del bilancio dello Stato lasciato dal Trattato istitutivo della UE alla competenza dei singoli governi nazionali), è di fatto inesistente, ancorché vincolata dalla politica di austerità imposta principalmente dalla Germania (la cui economia, peraltro, gode del vantaggio che deriva alla stessa dal consistente avanzo commerciale, nell’impossibilità che l’ormai inesistente valuta nazionale possa rivalutarsi).
Come se ne esce? A mio avviso solo con un balzo in avanti in favore di più Europa (specie con riguardo ai paesi dell’eurozona), con la creazione di una autorità sovrannazionale, democraticamente eletta e responsabile della gestione della politica economica per i paesi a moneta unica. Se è inaccettabile, infatti, l’inesistenza di un meccanismo perequativo dei vantaggi lucrati dalla Germania, lo è altrettanto il fatto che alcune imprese industriali possano trasferire la propria sede in paesi (dell’area euro) ai quali sia consentito un sistema impositivo più favorevole, così come è inaccettabile la presenza di paesi con sistemi fiscali a diverso regime di progressività e con tassazioni differenziate riguardanti le attività finanziarie. Un balzo in avanti - auspicato peraltro dallo stesso Governatore della BCE Mario Draghi -, verso quella Unione federale che sola può scongiurare il ritorno alla lotta nella svalutazione delle monete nazionali, situazione già profetizzata da John Maynard Keynes quale possibile causa di nuovi conflitti tra gli Stati.
“Siamo un’Italia povera e tarlata”, conclude la mia gentile interlocutrice. Francamente non mi pare che gli altri paesi dell’Unione Europea brillino in fatto di lungimiranza. Uno stato di cose che, anche a prescindere dagli effetti dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, non lascia presagire nulla di buono.
La Salle 24 agosto 2016



[1] Come ben sanno i lettori delle mie “divagazioni di economia, politica e società”, non nutro una grande simpatia per il chiacchiericcio sul web. Specialmente di quello esercitato da chi, protetto dall’anonimato, infarcisce i suoi ridicoli commenti di invettive che non meritano risposta. Per contro, rispondo sempre volentieri a tutti coloro che mi scrivono al mio indirizzo di posta elettronica: bruno.soro@unige.it.
[2] E’ curioso che alla voce di Wikipedia “Storia dell’introduzione dell’euro”, nel paragrafo dedicato alle “Controversie sull’introduzione dell’euro”, si legga che “In alcuni mercati italiani, soprattutto in quelli alimentari e dei beni di consumo (quelli dove si effettuano acquisti di basso valore assoluto), l'impressione (sottolineatura nostra) è che spesso si sia convertito 1 euro con 1000 lire, riducendo di quasi della metà il valore reale della moneta, In altri, per esempio nel mercato dei servizi pubblici, si assistette all'applicazione di forti arrotondamenti su prezzi e tariffe. In altri ancora, per esempio nel mercato dei beni più durevoli (elettrodomestici, telefonia, hi-tech) si verificò una leggera diminuzione di prezzi.” Ciò spiega la perdita del potere d’acquisto dei salari limitata nella misura del 30%. Il processo di conversione della moneta a mille lire anziché a poco meno di duemila da parte di coloro che possedevano il potere di mercato di fissare i prezzi a loro vantaggio (un fenomeno tutt’altro che una «impressione» e limitato peraltro alla sola esperienza italiana), conferma la nostra ipotesi sul «conflitto nella distribuzione del reddito».
[3] I «nativi digitali», i ventenni all’epoca del cambio della moneta, ricorderanno come allora, una pizza margherita costava cinque mila lire, e ciò consentiva loro di recarsi in pizzeria una volta alla settimana, spendendo complessivamente venti mila lire al mese. Con l’introduzione dell’euro, la stessa pizza è venuta a costare cinque euro (corrispondenti a dieci mila lire). A paghetta mensile costante, ci si è dovuti accontentare di andare in pizzeria una volta ogni due settimane. Ma così facendo il consumo mensile di pizze (con tutto ciò che questo comporta in termini di catena alimentare, inclusa la chiusura di qualche pizzeria ed il licenziamento di un certo numero di pizzaioli) si sarebbe ridotto della metà. L’adeguamento dei consumi alla riduzione del reddito seguita al cambio della moneta, la «vendetta del consumatore» ha pertanto provocato, non solo una riduzione dei consumi delle famiglie, ma anche una diminuzione della capacità produttiva (di pizze) e un disincentivo ad effettuare nuovi investimenti (l’apertura di nuove pizzerie).     







Commenti

Post più popolari