Galatea e i misteri dell’armadio misterioso

Quando si fa il cambio di stagione, il mio armadio a quello di Narnia gli fa un baffo: là la porta era un passaggio verso mondi sconosciuti, il mio invece i mondi sconosciuti li ha dentro.
Compro troppa roba. Lo ammetto, sì, è vero. La logica mi dice che non c'è un motivo reale per avere trenta paia di jeans ed un numero imprecisato di pantaloni, giacche, magliette, camicie, vestiti, e qualsiasi altro genere di indumento si stato inventato dalla mente umana in secoli e secoli di civiltà. La logica, appunto. Ma poi c'è l'occhio. E l'occhio dice di sì. Perché le venti paia di jeans, oh, non ce n'è uno che abbia lo stesso colore: ci sono i grigi, gli antracite, i neri, i blu scuro, gli slavati, gli azzurri, gli azzurri slavati, i verdini, i verdoni,  i verdi militari, i camufflage. E poi le forme: quelli slim che puoi mettere anche col tacco, quello attillato ma comodo che va con le snikers, e poi quello da battaglia quando piove e devi usare gli stivali. Quello che ha la cintura più lasca, e se devi stare seduta tutto il giorno allora ok, e quello che è stretto da entrarci con il risucchio, ma vuoi mettere quanto ti slancia quando devi rimanere in piedi? E i vestitini, larghi, lunghi, corti, stretch; le tuniche eleganti, quelle informali, la giacca casual, quella strutturata, quella pesante, quella più leggera, quella avvitata, quella oversize, ognuna con il suo sotto giacca, o meglio con uno o due possibili
abbinamenti, perché sia mai che quel giorno l'umore richieda qualcosa di particolare, un colore soft oppure più vivace.
Fatto sta che il cambio stagione diviene una impresa epica, perché poi, se per un paio d'anni lo hai fatto soprappensiero, bisogna recuperare il pregresso. Controllare, per esempio, se ancora entri in tutto, e quindi prova, guarda, medita, soppesa. E questo qua è ancora bello, però le tasche così non vanno più di moda, o il colore, il colore umpf non è la sfumatura giusta per questa stagione; e l'altro sì, ci entri ancora, ma quel chiletto di troppo si vede, il rotolino s'è incicciato, e allora che si fa? Si tiene in vista di tempi migliori o si butta, col rischio che se fra un mese il chiletto se n'è ito, ti mangi le mani per non avere più quel capo lì?
Poi ci sono i grandi scomparsi. Quei capi che ricordi perfettamente di non aver buttato, ma porca miseria non si trovano più. Li cerchi per tutti gli anfratti, ma niente, e alla fine capisci che sì, l'armadio di Narnia non era mica un modo di dire, sono finiti in una dimensione parallela da cui riemergeranno in anni futuri, e si materializzeranno là, dove avevi guardato tre volte senza vederli.
Ci sono  anche i grandi riapparsi, ovvero gli abiti misteriosi, quelli che ti ritrovi sulle grucce, o nei cassetti, e mannaggiallamorte ti ricordassi quando mai li hai comprati, o dove, e spesso anche perché. Alle volte sono traumi, perché non capisci davvero come ti sia venuto in mente di prenderlo un coso così strano, che non puoi abbinare con niente e ti sta pure male; altre volte sono sorprese meravigliose, perché anche se ti eri scordata di averlo per anni, nel momento dell'acquisto dovevi essere illuminata dalla grazia, perché allora magari non era niente di che, ma oggi è proprio quello che ti serve, e sai bene come valorizzarlo perché nel frattempo è diventato chic e di moda.
Invidio profondamente chi riesce a indossare poche cose, e a comprare quasi niente. Forse è giunto ad un livello di consapevolezza superiore. Io invece accumulo, accumulo, accumulo. Poi però è raro che non usi. Alla mattina quando mi alzo con la giornata storta l'unica cosa che mi riconcilia con il mondo è l'atto creativo di spalancare l'armadio e decidere gli abbinamenti, trovarmi di fronte ad una scelta infinita di possibilità. Mi dà un senso di libertà, l'unico che mi posso permettere alle sette del mattino. Per cui devo avere tanto, troppo, buttarmici a capofitto, immergermi nei flutti delle maglie colorate, delle camicie, delle pashmine, e poi riemergere vincitrice con in premo l'abbigliamento del giorno.
Piango quando sono costretta a separarmi da un capo perché magari non ci entro più, o si è macchiato irreparabilmente, o l'ha rovinato un lavaggio. Ogni capo è un ricordo, e ho dentro alle cassapanche vestiti da cui non riesco a separarmi nemmeno se non posso metterli più: la gonnellina vezzosa della laurea, o il serio completo blu con cui tenni il mio primo seminario, la camicia di lino larga con cui presi servizio il primo giorno di scuola.
Siamo noi i nostri abiti: sono la nostra interfaccia con il mondo. Non vanno mai sottovalutati, perché, come diceva quel vecchio saggio di Wilde, nessuno è più superficiale di chi non giudica dalle apparenze. E io adoro apparire. Per cui amo i miei abiti, amo le mie scarpe, le mie borse, i miei foulard, le cinture, la bigiotteria, gli accessori. Li amo appassionatamente.
Tranne in quel terribile momento in cui sono sparsi per tutta la casa, perché è il giorno del cambio degli armadi e loro invadono ogni dove per essere provati, e valutati, e poi riposti,e la casa sembra un campo di battaglia dove plotoni di vestiti giacciono ovunque, coprono ogni cosa, rendono impossibile credere che quel luogo potrà mai tornare in ordine come lo è stato un tempo.
Ecco, in quel momento lì i vestiti li odio. Ma è l'unico, in tutta la vita.





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