Il carretto passava e quell’uomo gridava 'Acciughe!'


by Piercarlo Fabbio
Anche in Alessandria, scendevano dai monti per le vie del sale. Erano i vecchi contrabbandieri trasformati in più pacifici venditori ambulanti dell'anello di congiunzione tra mare e terra: l'acciuga
Nella puntata di martedì 9 giugno de ‘La Mia Cara Alessandria’ in onda sulle frequenze di Radio Bbsi e disponibile nelle sezioni podcast sui siti www.fabbio.it e www.ritrattidall’alba.it, Piercarlo Fabbio - raccogliendo il suggerimento di qualche affezionato radioascoltatore – torna a occuparsi (come peraltro già promesso) dei cosiddetti ‘cibi di strada’. Non una rassegna completa, ma qualche dagherrotipo, qualche fotografia magari un po’ scolorita di personaggi che nel tempo hanno caratterizzato le vie e le piazze della nostra città e rinvigorito più di un corpo con annesso stomaco. Un percorso tra ambulanti e mangiari di una
società ove la povertà era denominatore comune assai diffuso e il cibo, molte volte, anziché una necessità, poteva addirittura essere un lusso.
Parlando di gelatai cadorini, bellecaldai e venditori di castagnaccio tosco-liguri, il discorso sugli ‘ambulanti very slow food’ si era interrotto sulle acciughe, anello darwiniano tra la terra e il mare. E proprio per raggiungere il mare dalla terra e viceversa, fin dal medioevo si usarono le vie del sale.
Perché? Quale la loro ragione di vita? Lo spiega Stefano Provera nella sua tesi di laurea: “Con la definizione ‘via del sale’ si indicano le antiche strade, le tante mulattiere, che in passato scendevano, attraverso l’Appennino, dalla pianura padana e dalle zone collinari dell’Italia settentrionale fino al litorale ligure ed erano nate come vie per il commercio. La città ligure infatti, superata Venezia nello smercio di prodotti provenienti dall’Oriente, rappresentò il centro commerciale più importante durante tutto il Medioevo. Il nome di queste importanti vie di comunicazione e di scambio è legato a un minerale, il sale, di grande valore nel passato; questo elemento infatti era indispensabile nell’alimentazione e nella conservazione dei cibi. Il sale non era facilmente reperibile nelle regioni settentrionali ed era l’unico ‘strumento’ a disposizione per stoccare, conservare e mantenere in buono stato molti cibi che altrimenti si sarebbero deperiti. Per questo a partire dal Medioevo fino al XV secolo la rete di percorsi e di sentieri dalla pianura al mare divenne tanto fitta e importante. Non esisteva un’unica via del Sale, perché tutti i popoli delle diverse regioni delle Terre Alte percorrevano i sentieri presenti sul loro territorio per raggiungere il mare e per recuperare i tanti prodotti utili alla sopravvivenza vendendo i propri elementi di scambio, rappresentati soprattutto da lana e da armi. Il trasporto dei sacchi di sale veniva effettuato a dorso di mulo, le strette e disagevoli mulattiere che si inerpicavano sui pendii non permettevano certo il passaggio di carri. Una rete con punti di tappa, offriva a uomini ed animali, alloggio e stallaggio per questa lunga traversata”.
Ma del sale si faceva anche contrabbando per non pagare dazi e gabelle imposte dai feudatari a cui l’Impero aveva assegnato proprio il controllo su questi percorsi per la sicurezza dei commerci, ma anche per assicurare al signore un’entrata costante dovuta al passaggio per quei monti. Proprio ai contrabbandieri dobbiamo guardare per comprendere il mestiere - più moderno - dell’acciugaio. Erano personaggi coraggiosi, che conoscevano i mille sistemi per aggirare i controlli e quindi avevano una perfetta conoscenza del territorio, invadevano a piacimento quelli che oggi sono i nostri confini amministrativi più rigorosi se si pensa che nei dintorni di Capanne di Cosola, si innestano le propaggini di quattro province: Alessandria, Piacenza, Pavia, Genova e, ovviamente, di quattro regioni: Piemonte, Emilia Romagna, Liguria, Lombardia. E’ lì il punto dell’Appennino ove si innalza il monte Chiappo a 1699 metri e si dipartono le valli dello Staffora, del Borbera e del Curone. Le vie del sale erano più d’una ci ricorda il Provera. “La via del sale lombarda ad esempio seguiva tutta la valle Staffora (in provincia di Pavia), percorreva il crinale che divide la val Borbera (provincia di Alessandria) dalla val Boreca (provincia di Piacenza) passando per il monte Antola per scendere in val Trebbia, a Torriglia, punto di incontro con i tracciati piemontesi ed emiliani, e da lì raggiungeva agevolmente Genova (…) Il passo del Turchino, principale via del sale, era la più breve tratta da pianura a costa: da Ovada a Voltri vi sono 25 chilometri”.
E Santa Limbania era la protettrice di chi percorreva questa strada. Il sale era dunque così prezioso che conveniva decisamente anche il suo contrabbando, ma le condizioni dell’economia e delle tassazioni cambiano e anche chi viola le leggi deve trasformare il suo daffare. Non a caso nel secolo XVII venne abolito il dazio e il contrabbando del prezioso minerale non poteva più fruttare. Fu così che i contrabbandieri, perfetti conoscitori del territorio, imparata l’arte di conservare le acciughe, si trasformarono in più mansueti venditori ambulanti. Raccolte in Liguria dai pescherecci che attraccavano ai moli, sceglievano quelle giuste (non troppo grandi, né troppo piccole, preferibilmente maschi), le mettevano sotto sale e li stipavano in barilotti o arbanelle, se li caricavano sulle spalle o sui muli e intraprendevano il loro cammino verso la pianura padana. Questa volta senza pensare di aggirare ostacoli e controlli, ma stando attenti, in pianura, a terreni paludosi, acquitrini, boschi, dove si celavano gaglioffi e briganti della peggior specie, pronti a non riconoscerli come colleghi ormai trasformati in commercianti.
Nell’Ottocento e fin all’inizio del ‘900, la vendita in città avveniva con ‘el caret di anciui’ (‘il carretto delle acciughe’) e la consegna così poteva avvenire anche a domicilio. Ecco come Carlo Valli rievoca il momento della vendita: “Ad ogni presa del prodotto che estraevano dalle botticelle di legno o dai contenitori di ferro ove giaceva pigiato e compiacente, saliva l’acre odore del conservato salino”
Che si mangiava con le acciughe? La polenta, innanzitutto, cibo neutro fatto apposta per accompagnare il pesce, che fosse quello salato o quello veloce del Baltico poco importava. Da noi l'acciuga era la regina della bagnacauda, una straordinaria salsa in cui intingere ortaggi, come cardo e sedano, che altrimenti avrebbero avuto ben poca storia nella culinaria popolare piemontese. Giovanni Goria spiega così l’inscindibile matrimonio tra bagnacauda e acciugaio: “Se volete fare una buona bagnacauda affidatevi a un vero acciugaio perché vi dia i pesci del barile giusto. Se invece volete pulire le acciughe dissalate per mangiarle sulle tartine con il burro in funzione di aperitivo, l’acciugaio ve ne indicherà un’altra latta, di più piccole e meno mature. Più grandi e rosse macerate nel sale anche due anni saranno le acciughe da tritarsi e sciogliersi per le infinite salse della nostra cucina piemontese, con capperi, aceto, aglio, prezzemolo e sottaceti a fare il ‘bagnet verd’ per il bollito di vitello e per i grandi pesci lessi, per condire insalate di verdure crude e lesse; mentre vi darà delle acciughe grandi piuttosto durette e giovani di stagionatura per fare quei bei piatti di puro antipasto di acciughe che una volta servivano nelle case piemontesi e nelle trattorie ad ogni pranzo festivo”. Certo si poteva anche aggirare l’ostacolo mettendo sotto sale le arborelle o i piccoli pesci di lago - dopo averle fatte seccare per giorni al sole sopra una pietra o su un graticcio - ma era una scorciatoia. Troppo vicino era quel pesce, troppo facile da mettere in rete e soprattutto senza aver sentito l’aria fine dell’appennino ligure, che fosse il Turchino o il Monte Chiappo, né aver respirato i profumi del verde di sentieri stortiglioni immersi nei boschi ai piedi del monte…
La rubrica ‘Reclame d’annata… però’ illustra le qualità di ‘Tricofilina’ e ‘Vitavigor’ (1918).
‘Strà per strà’ ci porta in via Giuseppe Viora (da via della Moisa alla Ferrovia; parallela, per un tratto, a via Cesare Battisti). Nato ad Alessandria nel 1868, intraprese la carriera militare. Partecipò alla guerra in Eritrea (1891-94) guadagnandosi una decorazione, poi alla prima guerra mondiale. Ne parla assai bene il Basile ne ‘La città mia’: “Nella guerra 1915-18 fu comandante di grandi unità, col grado di generale, meritandosi quattro decorazioni e la commenda dell'Ordine Militare di Savoia. Nel 1917, con la Brigata Firenze, conquistò il Montecucco e il Kobilek. Dopo Caporetto assunse il comando della IV Divisione di Fanteria con la quale difese eroicamente Venezia. In occasione di tale difficile difesa, fu cittadino onorario di Venezia. Nel 1918, le sue truppe restituirono alla Patria il territorio tra Sile e Piave. Nello stesso anno occupò le Giudicarie. Dopo l'armistizio, comandò il Corpo di occupazione della Dalmazia con le isole dàlmate e curzolane. Sulle sue carni indomite, portò gloriosamente le cicatrici per due ferite riportate in combattimento”. Morì a soli 53 anni, nel 1921, ad Alessandria.
‘L’almanacco del giorno prima, fatti successi tanti, tanti anni fa in Alessandria’ celebra Primo e Feliciano, patroni di Quargnento e la playlist della settimana la ‘Mattinata d’artista’ di Andrea Cotroneo.

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