Amianto e infortuni sul lavoro: audizione di Renato Balduzzi in Commissione d’inchiesta al Senato


Questo pomeriggio, il prof. Renato Balduzzi è stato audito dalla Commissione d’inchiesta del Senato sugli infortuni sul lavoro in relazione al problema dell’amianto e alle iniziative da lui promosse nelle vesti di Ministro della Salute tra il 2011 e il 2013. Riportiamo di seguito il testo integrale del suo intervento.
Ufficio stampa del prof. Renato Balduzzi
Audizione presso la Commissione d’inchiesta del Senato sugli infortuni sul lavoro.
24 marzo 2015
Leggendo gli atti della Commissione, e in particolare la relazione intermedia sui lavori approvata all’inizio di questo mese, ho notato un ampio spazio di attenzione dato al problema dell’amianto. Essendo l’oggetto dell’inchiesta il fenomeno degli infortuni sui luoghi di lavoro e trovandoci in un Paese che ha vietato da ventitre anni l’estrazione, la lavorazione, l’utilizzo e il commercio dell’amianto e dei prodotti che lo contengono, potrebbe sorgere legittimamente il dubbio che questa
attenzione della Commissione d’inchiesta sia soprattutto retrospettiva, rivolta alla ricostruzione storica di un fenomeno del passato, finalizzata ad illuminare fatti che hanno occupato un capitolo chiuso della storia industriale italiana. Sono però gli stessi lavori che la Commissione ha finora condotto a rimuovere questo dubbio e a riconoscere evidente attualità al problema dell’amianto, anche nella prospettiva qui propria del lavoro e non solo in quella più generale della tutela sanitaria ed ambientale. È anzitutto quella continuità tra l’esposizione professionale e non professionale che fa scattare il campanello d’allarme circa la non riducibilità del problema ai confini della tutela della salute sui luoghi di lavoro, circa la sua espansività e complessità, che qui è già emersa con particolare chiarezza, ad esempio, rispetto ad una questione apparentemente tecnica quale quella del corretto dimensionamento delle tutele previdenziali, che ha il nodo principale proprio nell’individuazione della platea dei beneficiari, strettamente correlata alla stima attendibile dei costi e alla graduazione interna delle tutele a seconda del tipo di esposizione.
Partirei dai fatti che motivano la mia convocazione qui, oggi, e che si legano all’esercizio da parte mia delle funzioni di Ministro della Salute tra il novembre 2011 e l’aprile 2013, periodo nel quale la questione amianto ha ripreso spazio nel dibattito pubblico e nell’azione delle istituzioni. La II Conferenza governativa sull’amianto (Venezia, novembre 2012) e il Piano nazionale da essa scaturito costituiscono i portati di questa rinnovata attenzione e su di essi sono chiamato a riferire.
Alla fine del 2011 stava giungendo alle battute finali il processo di primo grado ai vertici dell’Eternit (ovvero del maggiore gruppo industriale italiano ed europeo produttore di amianto al momento del bando del 1992), avviato dalla procura della Repubblica di Torino per i reati dei cui agli articoli 434 (disastro) e 437 (rimozione od omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro) del codice penale. Le parti civili costituite nel processo (oltre 6.300 tra migliaia di persone fisiche e le maggiori istituzioni e organizzazioni rappresentative delle collettività interessate dai fatti contestati) erano state raggiunte da alcune proposte di risarcimento da parte dei due imputati. Mentre le vittime e i loro familiari, riunite nelle associazioni di rappresentanza (la principale è stata qui audita), erano orientate a proseguire la battaglia processuale per arrivare alla piena dichiarazione di colpevolezza degli imputati e alle relative conseguenze sul piano della responsabilità civile, all’interno della città simbolo ed epicentro della tragedia affioravano aperture all’accettazione del risarcimento offerto. La frattura morale che stava per crearsi tra cittadini e istituzioni e, più in generale, all’interno della comunità locale – siamo nei giorni a cavallo tra il 2011 e il 2012 – era forte. La questione giunse all’attenzione del Ministero della Salute e del Ministro e veniva avviato un rapporto continuativo, di dialogo e consultazione. Nell’approfondimento che ne è derivato, il Ministro e il Ministero si formarono una rinnovata consapevolezza sulle dimensioni del problema amianto e sulla sua attualità. Merito anche del menzionato processo stesso e della mole di documentazione che in esso è stata raccolta e, soprattutto, organizzata e offerta ad una lettura organica e ad una visione d’insieme. Dalla legge n. 257 del 1992, dalla prima conferenza governativa del 1999, dal programma nazionale di bonifica e ripristino ambientale del 2001 (decreto del Ministero dell’ambiente n. 468 di quell’anno) dalla successiva implementazione della lista dei Siti di interesse nazionale (d.m. 308/2006) non è che sia successo nulla, sia chiaro.
Ma le caratteristiche del problema sembrano fatte apposta per promuovere una discontinuità negli interventi e una sottovalutazione dei danni: lunga latenza delle malattie asbesto correlate (dai 20 ai 40 anni ed oltre); forte localizzazione delle emergenze sanitarie (presso i luoghi che ospitavano cave e impianti produttivi, con conseguente tendenza a considerare locale il problema nella sua interezza); ampia disseminazione sul territorio nazionale di singoli casi ed episodi (spesso con “punti di emersione” giudiziari) di malattie professionali insorte nei lavoratori esposti a determinati utilizzi industriali dell’amianto (edilizia, tessiture, cantieristica, aeronautica, ecc.); presenza estremamente diffusa dell’amianto negli ambienti di vita (siamo il Paese che è stato il secondo produttore mondiale di questo materiale, il primo in area CEE, nel quale se ne sono consumate 3,7 milioni di tonnellate); presenza generalmente nascosta dell’amianto nei luoghi di vita (in particolare nell’edilizia, ma l’uso del materiale è stato per molto tempo diffuso in manufatti ove era controintuitivo pensarne una presenza, come i giocattoli ad esempio); volatilità delle fibre e terribile resistenza nel tempo delle stesse, che per dimensioni sono purtroppo facilmente inalabili fino a raggiungere le parti interne dell’apparato respiratorio; esito infausto delle malattie asbesto correlate e, in particolare, dei mesoteliomi, i quali versano in un paradosso nel quale alla loro “tracciabilità”, alla sicurezza elevata con la quale se ne accerta l’eziologia da esposizione ad amianto, si contrappone la relativa “rarità” nel panorama delle patologie neoplastiche, con tutto ciò che ne deriva in termini di sviluppo di trattamenti terapeutici efficaci.
Un quadro complesso e al contempo sfuggente, dunque, che il processo Eternit ha illuminato e pone all’attenzione delle istituzioni, le quali, anche per le contingenze che prima evocavo, sono state spinte a un rinnovato impegno. Di qui nasce la scelta di riprendere i fili che nel tempo il sistema sanitario aveva tirato in questa materia, legandoli a quelli concernenti la tutela ambientale e previdenziale. Il primo risultato dell’iniziativa del Ministero della Salute è lo studio sullo “Stato dell’arte e prospettive in materia di contrasto alle patologie asbesto-correlate”, che a metà 2012 è stato riportato sul Quaderno n. 15 del Ministero stesso. Si tratta di un documento estremamente interessante, perché già orientato a coordinare la risposta sanitaria in senso stretto (ricerca clinica e percorsi diagnostico-terapeutici) con quella sanitaria in senso ampio (profili epidemiologici e interventi di prevenzione) e con quelle ambientale (censimento, bonifica e smaltimento dell’amianto), assistenziale e previdenziale (criticità del quadro normativo e proposte di semplificazione). Lo studio costituì la base sulla quale venne organizzata la seconda Conferenza governativa sull’amianto e le patologie asbesto correlate, che si svolse a Venezia tra il 22 e il 24 novembre 2012, i cui atti sono stati pubblicati. La Conferenza organizzò i lavori su tre aree tematiche, che corrispondono a tre aree di manifestazione e comprensione del problema amianto e di intervento per affrontarlo: ricerca clinica e di base; sanità pubblica e ricerca epidemiologica; bonifiche e metodi di inertizzazione. Ai lavori presero parte i maggiori ricercatori delle discipline rilevanti (significativamente per la prima volta, non solo mediche e delle scienze ambientali, ma anche delle scienze sociali, giuridiche e sociologiche in particolare, il cui contributo è essenziale per una risposta unitaria al problema), le associazioni delle vittime e altre organizzazioni del terzo settore, le istituzioni locali e nazionali, la stampa e i media. Direi che il 2012 è l’anno in cui la base conoscitiva sull’amianto nel nostro Paese si consolida al punto tale da poterla considerare più che sufficiente per fondarvi politiche e interventi efficaci rispetto al problema. Al quaderno n. 15 del Ministero della Salute e agli atti della Conferenza di Venezia, aggiungerei anche il quaderno n. 9 dell’Istituto superiore di sanità che sempre quell’anno fu pubblicato in tema di “Problematiche scientifico-sanitarie correlate all’amianto” e che non si limita, nonostante la specificazione del titolo (“l’attività dell’Istituto superiore di sanità negli anni 1980-2012”), a relazionare sulle azioni dell’ente in questione, ma costituisce uno strumento retrospettivo (ad esempio con la sua analitica bibliografia) molto valido oltre questa prospettiva. E mi permetto di aggiungere a questi strumenti di conoscenza anche le sentenze Eternit, di merito (Tribunale Torino, 13.02.2013; Corte d’Appello Torino 03.06.2013) e di legittimità (Cassazione, 19.11.2014), le quali – al di là delle responsabilità accertate o della punibilità dei fatti: vi tornerò alla fine – illuminano una verità storica che non è solo giudiziaria rispetto alla vicenda della produzione di amianto in Italia e in Europa.
Su questa base conoscitiva – sentenze escluse, in tal caso – si innesta il principale strumento che il nostro Paese si è dato per coordinare gli interventi sul problema: il Piano nazionale amianto. Anche qui, fare memoria dei fatti è importante. I contenuti essenziali del Piano (quelli sanitari in particolare) furono elaborati già all’esito della Conferenza di Venezia. Nelle settimane successive essi vennero implementati e perfezionati. Il 21 marzo 2013 il governo allora in carica, del quale facevo parte, prese positivamente atto del Piano. Che vuol dire? Lo adottò? Si. Essendo tuttavia necessaria la collaborazione (davvero importante e, per diversi profili, decisiva) delle Regioni, però, tale presa d’atto non poteva ritenersi completare l’iter di adozione dell’atto, in quanto per essa veniva – ed è – richiesta l’approvazione in Conferenza Stato-Regioni. Non si tratta di un cavillo del nostro sistema regionale-autonomistico. Il piano reca “Linee d’intervento per un’azione coordinata delle amministrazioni statali e territoriali”: non è immaginabile che il sistema delle autonomie non ne prenda atto e si impegni a realizzarlo. Altra cosa è l’accettabilità di uno stallo che perdura rispetto a tale presa d’atto e d’impegno, ma l’aver previsto questo passaggio, oltre che doveroso sotto il profilo giuridico-istituzionale, è altresì opportuno sotto quello politico-istituzionale. Il Piano, dicevo, è l’atto che dovrebbe orientare e coordinare l’azione pubblica in questa materia. È diviso in tre macroaree, ciascuna delle quali “compilata” dal Ministero competente a sovrintenderne e, in parte, dirigerne l’attuazione: tutela della salute, tutela ambientale, sicurezza del lavoro e tutela previdenziale. Quest’ultima parte è quella che contiene il maggior numero di impegni generali o interlocutori. Non è un problema legato alla volontà dell’amministrazione di riferimento, ovviamente, né alla maggiore o minore attenzione che un’amministrazione ha rispetto ad un’altra, ma è una criticità interna al sistema: mentre sul piano sanitario ed ambientale nodi difficili sono stati sciolti e rispetto ad altri si è individuato un percorso, su quello previdenziale l’impressione è che alcune decisioni non siano ancora state assunte – e non stupisce, al proposito, che negli atti parlamentari i disegni di legge che vertono sulla materia abbiano tutti, principalmente, un taglio assistenziale e previdenziale, perché è in questo settore e a livello parlamentare che alcune decisioni devono essere assunte, per la tensione esistente tra domanda di giustizia e ristoro delle vittime, da un lato, e le esigenze della finanza pubblica, dall’altro.
Citavo all’inizio il problema della continuità difficilmente assoggettabile a cesure che esiste tra categorie di esposti alle fibre d’amianto per ragioni professionali ed extraprofessionali, ovvero tra:
i)                    ex lavoratori esposti (lavoratori dell’industria estrattiva e manifatturiera o della cantieristica, della meccanica e dell’edilizia, ovvero in settori non più attivi per il bando del 1992);
ii)                   familiari dei lavoratori ex esposti (sono note a tutti, ormai, le cause di esposizione diretta dei familiari, ad iniziare dal contatto con gli indumenti dei lavoratori; anche qui, una categoria che ad oggi è a numero chiuso);
iii)                 residenti nelle località ove sorgevano cave o impianti di trasformazione dell’amianto (per i quali il rischio di esposizione e di contrazione di patologie asbesto-correlate è statisticamente notevolmente più elevato, nonché soltanto in parte esaurito e, in alcuni casi, ancora attuale, essendo la presenza di amianto direttamente connessa alla lavorazione locale ancora non eradicata);
iv)                 lavoratori attualmente e in futuro esposti (ovvero i lavoratori nel settore delle bonifiche e dello smaltimento: tornerò subito su di un dato temporale recentemente attestato nel dibattito scientifico di settore sul periodo necessario alla realizzazione delle bonifiche);
v)                  familiari di questi lavoratori attualmente esposti (qui si spera che le norme e le tecniche di protezione siano tali da neutralizzare il rischio);
vi)                 popolazione generale esposta all’amianto, per la diffusione che esso ha negli ambienti di vita a seguito non della presenza di impianti industriali di lavorazione e trasformazione, ma degli utilizzi negli edifici pubblici e privati o, in generale, nell’ambiente ove accidentalmente esso è stato disperso.
Che l’ordinamento non abbia trovato una soluzione alla domanda (emersa anche in questa sede) di socializzazione del rischio con riferimento ad alcune delle categorie sopra indicate, è certificato dal Piano nazionale, parte III, obiettivo n. 3 (“Indennizzo/risarcimento delle malattie asbesto correlate in soggetti non tutelati da INAIL in particolare per le malattie conseguenti ad esposizione ambientale”), il cui terzo capoverso recita: “Nel merito poi, in primo luogo, va verificata la fattibilità di un intervento normativo di ampliamento dell’attuale platea anche a vittime di patologie non correlate ad esposizione lavorativa all’amianto, a condizione di individuare con certezza, unitamente al Ministero della Salute che dispone delle informazioni relative alle “malattie comuni”, la platea dei beneficiari definendone, in modo dettagliato e puntuale, presupposti e condizioni, ad iniziare da quanti hanno contratto patologie in ambito familiare, che consentano di quantificare con precisione gli oneri finanziari necessari a tal fine” (corsivi miei). L’obiettivo è interlocutorio, ma non per questo va sottovalutato perché focalizza e imposta con esattezza il problema.
Al riguardo possono farsi due ordini di considerazioni.
Il primo riguarda i dati presenti nel Piano nazionale della prevenzione relativi alle malattie professionali asbesto-correlate. Era tra gli obiettivi del Piano amianto includere interventi di prevenzione su esposti ed ex esposti tra quelli del PNP ed è stato fatto. Ora, il PNP considera il problema, ma per gli interventi rinvia all’attuazione del Piano nazionale amianto (il quale attende il via della Conferenza Stato-Regioni): l’ironia sarebbe facile, ma anche fuori luogo, in quanto si tratta appunto di sciogliere alcuni nodi. In questa sede, mi interessava citare soltanto il dato sulle malattie professionali (p. 51 del PNP): quelle asbesto-correlate – malattie tecnicamente “rare”, lo ricordo – originano un tasso di mortalità eguale a quello di tutti gli infortuni sul lavoro, inclusi gli incidenti stradali connessi. Detto altrimenti, provocano la metà dei decessi per cause di lavoro. L’epidemiologia ci mostra che il picco di questa tremenda curva statistica sarà raggiunto attorno al 2020. Stiamo parlando soltanto di un’onda lunga del passato industriale di questo Paese? Questo eccesso statistico è chiaramente legato a questo fattore storico. Ma non è tutto. Perché – secondo ordine di considerazioni – le operazioni di bonifica, vista la quantità enorme di amianto ancora presente nel Paese, dureranno molto e quindi molti saranno i lavoratori (e i cittadini direttamente interessati) esposti al rischio. Certamente l’attenzione per la prevenzione del contatto con le fibre è oggi incommensurabilmente superiore, ma la vastità delle operazioni e la loro capillarità, unite tra loro e con prassi di scarso rispetto delle norme-base sulla sicurezza nei micro-cantieri che spesso danno corpo alla bonifica, sono tali da mantenere alta la soglia d’allerta (qui si pone il problema dei controlli sulla sicurezza dei lavoratori delle bonifiche: il Piano nazionale si propone di elevare dal 15 al 20% la quota di cantieri assoggettati a visita da parte di ASL e ispettorati del lavoro). La recente III Consensus conference sul mesotelioma (tenutasi a Bari il 29 e 30 gennaio scorsi) ha fornito alcuni dati che non vanno ignorati: gli studi ivi presentati hanno stimato che la bonifica dei 32 milioni di materiali complessivamente contenenti amianto ancora presenti nel nostro Paese richiederanno 85 anni di bonifiche per poter essere rimossi. E il dato potrebbe crescere quantitativamente o modificarsi nelle stime temporali, perché la mappatura dei siti contenenti amianto non è completa: la sua piena realizzazione è tra gli obiettivi della parte ambientale del Piano nazionale amianto, perché in alcune Regioni il censimento non è mai partito davvero, sicché il numero che normalmente circola di 34.000 siti è una cifra in sicuro difetto. L’ultimo aggiornamento della mappatura dei siti con presenza di amianto è del novembre 2014. A questa data l’unica regione che risulta non censita è la Calabria. I dati mostrano alcune sproporzioni tra i censimenti regionali che sembrano da ricondursi più alle modalità del censimento che alla situazione reale. Ad esempio il 50% dei siti risulta presente nelle regioni Marche e Abruzzo. Si tratta di anomalie che segnalano la necessità di definire standard più omogenei nella rilevazione della presenza di amianto nei luoghi di vita e di lavoro. Una mappatura attendibile è il presupposto per qualunque operazione di bonifica.
Sempre a proposito di dati, ricordo che negli atti della Conferenza di Venezia (p. 95), tra le azioni strategiche per il miglioramento della tutela della salute e sicurezza dei lavoratori esposti ad amianto nei luoghi di lavoro, era menzionata l’implementazione all’interno del SINP (Sistema informativo nazionale per la prevenzione nei luoghi di lavoro) dei dati sulla presenza di amianto in detti luoghi. L’auspicio è che, una volta finalmente attivato, il SINP possa aiutare i decisori nazionali e locali.
Per completezza, segnalo al’attenzione della Commissione l’opportunità di cominciare ad approfondire le conseguenze che la scelta (effettuata dall’AC 2613-A, in tema di superamento del bicameralismo paritario e revisione del Titolo V della Costituzione) di ricondurre alla competenza esclusiva statale la tutela e sicurezza del lavoro – e non le sole disposizioni generali, come in una precedente stesura – può comportare in un settore nel quale le competenze regionali sono state esercitate anche a livello di potestà legislativa e non soltanto programmatoria o amministrativa.
Riassumendo: quello legato all’amianto è un problema di inquinamento ambientale, con conseguenze sanitarie ed effetti sociali difficili e gravi, che può e deve essere affrontato. Esattamente questo intendevo quando, introducendo il quaderno n. 15 del Ministero della Salute che prima citavo, parlavo di emergenza nazionale con riferimento alle malattie asbesto-correlate.
Tutto questo, certamente, impatta sul problema delle tutele assistenziali e previdenziali come impostato dal Piano nazionale amianto, perché la “definizione puntuale e circostanziata dei beneficiari” e la “quantificazione precisa dei costi” sono obiettivi che, nella loro completezza, non sembrano potersi raggiungere una volta per tutte. Se questi obiettivi vengono, dunque, posti come presupposto della decisione sulle tutele da riconoscere ai danneggiati, è difficile far avanzare il processo: su questo punto, forse, il Piano nazionale amianto potrebbe essere suscettibile di un approfondimento interpretativo.
Credo che vada ricordata, al proposito, un’altra circostanza: allo stato dei fatti, la grande maggioranza delle vittime delle lavorazioni industriali dell’amianto non ha ottenuto per via giurisdizionale adeguata tutela. Mi riferisco all’esito del processo Eternit, per come esso è stato concluso dalla sentenza della Corte di Cassazione del 19 novembre 2014, della quale abbiamo potuto leggere alcune settimane fa le motivazioni depositate. Le migliaia di persone che avevano trovato ristoro nei risarcimenti diretti da parte dei responsabili dei fatti di disastro, accertati nei giudizi di merito, attualmente risultano privati di questa tutela. Certamente una cospicua parte di costoro possono hanno già avuto accesso o possono accedere al Fondo nazionale, ma l’insufficienza strutturale di questo strumento è manifesta ed è stata, peraltro, già trattata in questa sede.
È notizia recente quella dell’avvio di un nuovo processo Eternit (c.d. Eternit 2) per fatti di lesioni ed omicidio (non contestati nel procedimento ormai concluso) e l’esito, anche in termini di soddisfazione delle domande civili, è indeterminato. Tuttavia, è inimmaginabile che il sistema non si interroghi su come rimediare ai vuoti di protezione che, per sua natura, la tutela giudiziaria dei diritti, rispetto a quella legislativa, presenta (almeno in termini di accessibilità e perequazione).
In queste condizioni, sollecitare la “socializzazione” del problema a totale scapito della valutazione di eventuali e puntuali responsabilità individuali – come è emerso anche in alcune audizioni in questa sede – credo sia un approccio non condivisibile: sarebbe come voler dire che, nella storia industriale del nostro Paese, fatti collettivi come quello dell’Eternit non possano trovare giustizia nella ricerca delle responsabilità individuali, ma vadano in ogni caso posti a carico della collettività. A ventitre anni dal bando dell’amianto e a ventinove dal fallimento del più grande gruppo industriale che lo produceva in Italia, qualora esistano soluzioni, anche parziali, per distribuire con maggior giustizia i costi, esse vanno percorse.
E’ un problema che si è posto anche in altri ordinamenti – meno equi del nostro per diversi aspetti o, almeno, con un’idea di giustizia sociale –, i quali hanno trovato soluzioni per un riequilibrio tra profitto ed esternalità negative in capo all’industria dell’amianto (che, ricordo, è ancora florida in alcune parti del globo). Ad esempio, negli Stati Uniti la maggiore corporation del settore (la Johns & Melville) al momento del fallimento (avviato nel 1982 e concluso nel 1988) fu indotta a creare un trust fund dotato di 2,5 miliardi di dollari cui hanno finora avuto accesso alcune centinaia di migliaia di vittime. Per il passato può essere operazione ardua redistribuire i costi di questa vicenda, ma, poiché il problema dell’amianto è considerato da codesta Commissione anche per trarne orientamenti futuri, questo potrebbe essere un elemento di utile riflessione.
Termino con un auspicio. La combinazione che tra il 2011 e il 2013 ha riportato in primo piano, nel dibattito pubblico e istituzionale del nostro Paese, la questione amianto è stata in parte contingente. La speranza è che l’Italia, e in particolare le istituzioni repubblicane, abbiano tratto insegnamento da tutto questo e che l’attenzione e l’impegno sul tema non cali. Credo che il vostro lavoro possa essere un fatto positivo anche in questa direzione.



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